Anche nella gestione del Covid19 affiorano le preoccupazioni per la militarizzazione e la censura. L’appello del cardinale Bo: «È arrivato il tempo di decisioni che consentiranno al Myanmar di essere una nazione unita, pacifica, prospera»
Il Myanmar è sottoposto a misure di prevenzione, controllo e trattamento del contagio da Coronavirus in vigore fino al 15 maggio nel tentativo di evitare una diffusione contro cui le fragili strutture sanitarie del Paese e le precarie condizioni economiche di molti birmani avrebbero poche possibilità di resistenza. Una scadenza a cui si è adeguata anche la Chiesa cattolica che ha finora accompagnato l’impegno al contenimento del contagio con sospensione di attività socio-educative e pastorali, anche delle funzioni pubbliche, oltre che con un utilizzo maggiore delle possibilità concessa dalla comunicazione online.
Dall’individuazione dei primi tre casi di contagio per Covid-19 il 23 marzo – successiva, a segnalazioni già da fine gennaio di cittadini cinesi infetti sul territorio – il Myanmar è corso ai ripari, decidendo la chiusura della maggior parte dei posti di frontiera e un filtro sempre più stretto ai voli in arrivo e imponendo la quarantena obbligatoria per tutti i passeggeri. Limitazioni ai movimenti sono imposti quasi ovunque. L’intera aerea della capitale economica Yangon (ex Rangoon) è sotto coprifuoco notturno previsto fino al 18 giugno. Coprifuoco imposto secondo tempi variabili pure nella seconda città del paese, Mandalay, e in diversi Stati, tra cui quelli Kayin, Chin e Shan. Chiuse le frontiere anche al rientro di centinaia di migliaia di birmani emigrati per lavoro all’estero in particolare nella confinante Thailandia, e pressoché bloccato il flusso turisti, imprenditori, commercianti, consulenti e specialisti provenienti fino a gennaio dalla Cina.
Da sempre il rapporto tra il Myanmar e il vicino cinese è stato intenso e, sino alla fine del regime nel 2011, sostenuto dall’apparato militare che ancora oggi, nonostante il consolidamento di istituzioni democratiche con un ruolo essenziale garantito alla Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi e dalla sua Lega nazionale per la democrazia, ha il controllo di ministeri chiave, come quelli delle Risorse naturali e delle Frontiere, che garantiscono forti benefici economici e il controllo di aree strategiche.
Interessi che fanno da sfondo all’instabilità di diverse aree del Paese. A fine marzo l’organizzazione non governativa Fortify Rights aveva chiesto al governo la sospensione immediata di ogni restrizione all’uso di internet negli stati Rakhine e Chin, svuotato il primo dell’etnia musulmana Rohingya da operazioni militari che la comunità internazionale ha denunciato come “genocidio”, e il secondo che è campo di battaglia tra esercito e milizie etniche. Militarizzazione e censura impedirebbero infatti un’efficace azione preventiva e di cura in caso di epidemia conclamata.
Una situazione evidenziata anche dal cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche, che in un messaggio diffuso il 22 aprile si dice «convinto che le persistenti operazioni militari in un tempo in cui la stessa nazione sperimenta una crisi avranno conseguenza catastrofiche». Il porporato ha anche sollecitato le parti in campo a comprendere che «è arrivato il tempo di decisioni che consentiranno al Myanmar di essere una nazione unita, pacifica, prospera e un membro della famiglia delle nazioni». Un riferimento non tanto velato alle elezioni del prossimo autunno che, dopo il fallimento del recente dibattito parlamentare sulle modifiche costituzionali che avrebbero tolto ai militari il diritto di vedo sulle maggiori decisioni di legislativo, esecutivo e presidenza, segnaleranno se i birmani intendono perseguire una democrazia reale.