Agonia Dogon

Agonia Dogon

Gli scontri tra i pastori peul e gli agricoltori dogon nel Mali centrale continuano a provocare morte e distruzione, ma anche la perdita di identità di un popolo divenuto famoso per la sua complessa cultura e arte

 

«I check point illegali rappresentano un grave attentato alla sovranità dello Stato e sono punti di insicurezza per le popolazioni». Con queste parole, il primo ministro Boubou Cissé ha chiesto fermamente di smantellare tutti i posti di blocco disseminati in varie zone del Mali centrale e in particolare nella regione che va da Mopti a Bandiagara, dove uomini armati hanno in qualche modo preso il controllo del territorio, chiedendo anche di pagare un “pedaggio” alle persone in transito. Sebbene non vengano mai nominati esplicitamente dal primo ministro, i responsabili dei posti di blocco sarebbero i cosiddetti chasseur (cacciatori) della milizia di autodifesa dogon Dan Na Ambassagou.

Quello dei posti di blocco illegali è uno degli strascichi dell’escalation di violenza che sin dallo scorso anno ha visto contrapporsi gruppi di pastori seminomadi peul e popolazioni dogon. Uno scontro tra due mondi, due culture, due religioni che ha radici ataviche, ma che in questi tempi di sconvolgimenti per tutto il Sahel ha conosciuto picchi di violenza mai conosciuti prima.

«Le milizie esistono a causa del vuoto lasciato dallo Stato», stigmatizza Issa Togo, deputato di Koro, epicentro di stragi efferate, e presidente del collettivo dei deputati della regione dogon. E forse quella del “vuoto di potere” è una delle poche cose su cui sono tutti d’accordo.

«La situazione è diventata molto più grave in seguito alla totale destrutturazione del tessuto politico-sociale nelle zone di guerra del Mali e alla crisi dello Stato», commenta il professor Mario Giro, docente di relazioni internazionali e già viceministro degli Esteri, che però mette in guardia da una lettura troppo “occidentale” della crisi del Sahel e dello scontro peul-dogon. «Questi ultimi sono stati un po’ mitizzati e godono di “ottima stampa” in Occidente – precisa il politologo -, mentre i peul vengono in qualche modo “semplificati” ed etichettati indistintamente come il nemico. In realtà si tratta di un popolo di almeno 30 milioni di persone, presenti in una vasta area che va dal Senegal al Centrafrica sino al Sudan, con molti gruppi diversi che non necessariamente vanno d’accordo tra di loro».

È in una dinamica di caos e destabilizzazione sovranazionale, dunque, che va inserito anche lo scontro molto locale tra dogon e peul nella zona del Mali centrale. Uno scontro che, cominciato con attacchi e attentati lo scorso anno, continua a trascinarsi ancora oggi. Anche perché, da un lato, i giovani peul si sono organizzati in gruppi di motociclisti pesantemente armati e molto mobili, che realizzano assalti fulminei, coordinati e micidiali, provocando morti, feriti, saccheggi e distruzioni. E costringendo la gente a fuggire, creando così ulteriori situazioni di fragilità e precarietà. Dall’altro, i dogon si sono organizzati a loro volta in milizie di autodifesa, attingendo alla tradizione degli chasseur e “adattandola” alla situazione contingente, non senza abusi e prevaricazioni.

«Tradizionalmente – spiega Mario Giro – questi conflitti venivano composti con modalità locali e il coinvolgimento degli anziani. Oggi, assistiamo a un nuovo modo di assumere un prodotto antagonista che è quello del terrorismo jihadista da parte delle milizie. Il loro programma, tuttavia, resta molto locale, almeno nella maggior parte dei casi. Molte milizie, infatti, cercano di approfittare della situazione di fragilità degli Stati e degli eserciti per aumentare i propri spazi di controllo e azione e volgere a loro vantaggio antiche diatribe».

Il terrorismo e il fondamentalismo, dunque, si sarebbero inseriti là dove erano presenti antiche questioni e rivalità, specialmente per quanto riguarda le popolazioni peul. Dal canto loro, i dogon, che sono un piccolo gruppo di circa 240 mila persone, tradizionalmente arroccato lungo la falesia di Bandiagara, hanno dovuto e saputo adattare la loro cultura e i loro costumi all’ingerenza – prima ancora che dei peul – di una “modernità” che li ha messi di fronte a nuove sfide. Non sono più il popolo del “Dio d’acqua”, come li aveva descritti l’etnologo francese Marcel Griaule nel 1948, costruendone un’immagine quasi mitica. Non lo sono da molto tempo, nonostante mantengano ancora antichi costumi e cultura e cerchino di preservare (talvolta a uso e consumo dei turisti) i caratteristici villaggi “appesi” alla falesia o le famose togouna (le “case della parola”), finemente scolpite. I dogon sono famosi anche per aver scoperto la stella Sirio B in epoche lontanissime e senza strumenti tecnologici e per la complessa cosmogonia, che ha affascinato molti studiosi e viaggiatori.

«La falesia di Bandiagara è uno dei maggiori siti di importanza archeologica, etnologica e geologica del mondo», testimonia Marco Aime, antropologo e grande conoscitore di questo popolo, a cui ha dedicato diversi libri e ricerche. Ma è anche un luogo in cui si è mantenuta viva una cultura molto originale e complessa: «Le danze – continua Aime – costituiscono il rito forse più significativo e antico. Ma la loro cultura si esprime anche attraverso altre forme d’arte: in particolare, questo popolo è diventato famoso per l’attività scultorea, totalmente intrisa di religiosità. Le statue lignee rappresentano spesso la dea madre, evocano la fertilità e la sacralità della natura». Purtroppo, molte di queste opere, specialmente le più antiche e preziose, sono state portate via da collezionisti europei e oggi, nella migliore delle ipotesi, sono visibili nei musei, ma molto spesso giacciono rinchiuse in dimore private. Quel che resta del mondo dogon rischia ora di sparire o di cambiare radicalmente anche in Mali, con il diffondersi delle violenze e dell’insicurezza. L’esacerbarsi, in particolare, del conflitto con i peul potrebbe dare il colpo di grazia se non all’intero popolo – qualcuno parla addirittura di genocidio – per lo meno alla sua antica “civiltà”.

Non che con i peul ci fossero buoni rapporti neppure in passato, anzi. Rivalità e violenze sono sempre esistite. Qui come altrove, infatti, i pastori peul non si sono mai fatti troppi scrupoli a invadere e devastare i campi degli agricoltori per far pascolare le loro imponenti mandrie. E oggi questo rappresenta una delle cause principali di conflitto in tutto il Sahel. Un conflitto che anche i cambiamenti climatici – e dunque la maggiore difficoltà a trovare pascoli e acqua – hanno contribuito ad accentuare.

«Del resto – commenta il professor Giro – sono state innanzitutto le grandi carestie del ’71-’73 e poi quella dell’84 a provocare i cambiamenti più rilevanti in questa regione, più di quanto il terrorismo non stia facendo oggi. Questo perché la situazione non è mai stata seriamente affrontata dagli Stati, e in particolare dal Mali, che ha tenuto grosse parti di popolazioni in condizioni subordinate. Queste popolazioni oggi approfittano della completa destrutturazione dello Stato per riproporre vecchi e nuovi contenziosi in maniera più violenta. Ma se in passato questa questione aveva una connotazione prevalentemente etnica, oggi è più presente anche l’elemento religioso».

Questa dinamica è stata più evidente, sinora, soprattutto nelle regioni del Nord, dove sulla vecchia “questione tuareg” (con mire autonomiste o indipendentiste a seconda dei gruppi o delle stagioni) si è inserito un elemento di jihadismo e di terrorismo, proveniente anche da fuori. Nel Mali centrale invece si sono accentuate le questioni identitarie.

«I dogon – precisa Giro – sono molto pochi rispetto ai peul. Creare proprie milizie significa dunque aumentare l’assertività in termini di identità. In questo caso quelli che hanno cambiato maggiormente il modo di agire sono proprio loro. Con la creazione di milizie di autodifesa hanno introdotto forme di privatizzazione della guerra in una situazione di caos».

Ma tra violenze, gente in fuga e sfollata, ritorsioni e abusi (da entrambe le parti), i dogon oggi rischiano di perdere, prima ancora che la guerra, la loro anima. MM

 

Il rapporto sulle violazioni

Centinaia di morti tra cui moltissimi bambini, decine di villaggi dati alle fiamme, oltre 50 mila sfollati. È il bilancio (parziale) degli attacchi e delle rappresaglie che si sono verificati da maggio a novembre del 2019 nella regione centrale del Mali e che non si sono ancora del tutto fermati. È quanto viene riportato in un circostanziato report di Human Rights Watch, pubblicato lo scorso febbraio, dal titolo: “Quanto altro sangue dovrà essere ancora versato?”. «Gli attacchi di tutte le forze – vi si legge – sono stati quasi sempre accompagnati da saccheggi, distruzione o incendio di villaggi e furti di bestiame su vasta scala. La diffusa insicurezza ha minato la capacità di pastori, agricoltori e commercianti di lavorare, provocando fame e decine di migliaia di sfollati. L’insicurezza ha anche portato alla chiusura di almeno 525 scuole nella regione di Mopti, colpendo oltre 157 mila bambini».

 

Rapimenti e riscatti

Sono riusciti a fuggire (secondo la versione ufficiale) lo scorso 12 marzo dalle mani dei terroristi Luca Tacchetto ed Edith Blais, che erano stati rapiti il 16 dicembre 2018 in Burkina Faso e trasferiti nel Nord del Mali nella zona di Kidal.

È invece ancora nelle mani dei rapitori padre Pierluigi Maccalli (nella foto sotto) della Società delle missioni africane (Sma), rapito in Niger il 18 settembre del 2018 e probabilmente trasferito alla frontiera tra Mali e Burkina Faso. La stessa sorte potrebbe essere capitata anche a Nicola Chiacchio, un turista “sparito” in quella regione. Molte incognite permangono anche sulla situazione di Silvia Romano, sequestrata in Kenya il 20 novembre 2018 e probabilmente nelle mani dei fondamentalisti somali. Quello dei sequestri a scopo di riscatto è tuttora uno dei metodi maggiormente praticati da gruppi ribelli e terroristici per il loro autofinanziamento.