Il continente si prepara al peggio. E non solo da un punto di vista sanitario. Preoccupano le ripercussioni su economie fragili e su popolazioni vulnerabili. L’impegno dei missionari del Pime
Se c’è un continente che desta grande allarme per la diffusione del Coronavirus questo è l’Africa. Anche se i dati ufficiali sono meno drammatici che altrove. Ma se c’è una certezza in Africa è che i dati non sono certi. Infatti il direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per il continente, il dottor Matshidiso Moeti, ha ammonito già da tempo che «l’Africa sarà il nuovo epicentro dell’epidemia». In un continente che ha affrontato l’arrivo del Covid-19 con solo due Paesi in grado di effettuare i test (Senegal e Sudafrica), la diffusione della malattia è perlomeno sottostimata. Mentre è assolutamente indubbia l’incapacità di molti sistemi sanitari di farvi fronte. Ci sono Paesi come Gibuti, la Guinea Bissau o il Sud Sudan che non dispongono di posti in terapia intensiva. Ma ce ne sono molti altri che non hanno neppure gli strumenti minimi di protezione come mascherine e camici per il personale medico, e non sono in grado di far fronte alle esigenze sanitarie più comuni. Per non parlare del fatto che la sanità in Africa è quasi tutta a pagamento e per molti inaccessibile. Oggi anche per ragioni logistiche.
«La preoccupazione più grande – mette in guardia Dominique Corti, dell’ospedale cattolico St. Mary’s Lacor di Gulu, nel Nord dell’Uganda, uno dei più grandi del Paese, dove hanno affrontato anche la terribile epidemia di Ebola – è che le persone non possano arrivare all’ospedale per i divieti di spostamento e muoiano così di malaria, anemia, diarrea o polmoniti che non hanno nulla a che fare con il nuovo virus. O di parto, se la futura mamma non riesce a raggiungere l’ospedale quando la gravidanza si complica. Solo per fare un esempio, l’Uganda registra 16 milioni di casi di malaria e più di diecimila morti l’anno». Morti che quest’anno potrebbero essere molti di più, come effetto collaterale del Coronavirus.
Ma la diffusione del Covid-19 in Africa non è solo una questione di emergenza sanitaria. L’epidemia, infatti, va a inserirsi in contesti già fortemente indeboliti da situazioni di malgoverno e corruzione, guerre e terrorismo, crisi umanitarie e climatiche, povertà diffusa e migrazioni forzate, solo per citare alcune delle grandi questioni che attraversano oggi il continente africano.
Quasi ovunque, i governi hanno preso misure draconiane, sulla falsariga di quelle europee: chiusura delle frontiere terrestri e degli spazi aerei; lockdown di scuole, uffici pubblici, attività produttive; divieto di spostamento e di assembramento; chiusura di tutti i negozi, a esclusione di quelli di generi alimentari e farmacie, e dei luoghi di culto… Tuttavia, i provvedimenti adottati e le possibili soluzioni rischiano di essere più pericolosi e nefasti del virus stesso. Innanzitutto perché stanno riducendo alla fame milioni di persone, che già oggi vivono in situazioni di estrema povertà e fragilità.
Secondo la Banca Mondiale, l’Africa subsahariana soffrirà di recessione per i prossimi 25 anni come conseguenza dell’epidemia di Coronavirus. Già oggi i prezzi delle materie prime di cui è ricchissima stanno crollando. Questo potrebbe avere effetti nefasti su economie poco diversificate che dipendono dall’export delle risorse minerarie e su Paesi già fortemente indebitati, con bilanci deboli e scarsa capacità di riscossione delle imposte. Ma già oggi l’imposizione di blocchi, chiusure e divieti – spesso fatti rispettare con brutalità dalle forze dell’ordine – sta avendo ripercussioni drammatiche sulla vita della gente.
Una testimonianza in questo senso ci arriva dalla Guinea Bissau, uno dei Paesi più poveri e arretrati al mondo, dove l’accesso alle cure sanitarie è un privilegio per pochi. Padre Davide Sciocco, missionario del Pime, è in prima linea nelle azioni di sensibilizzazione e prevenzione della diffusione del virus. «È l’unico modo per evitare la catastrofe – ci conferma – perché questo Paese, come molti altri dell’Africa, non sarebbe in grado di affrontare e sopportare le conseguenze di un’epidemia». Un forte appello sul ruolo fondamentale della prevenzione è arrivato anche dal medico congolese Denis Mukwege, premio Nobel per la pace: «Dobbiamo evitare un’enorme diffusione del virus e una moltiplicazione dei casi».
Ma come farlo in un contesto come la Guinea Bissau che è alle prese anche con l’ennesima crisi politica? Il Paese combatte a mani nude contro un nemico invisibile le cui conseguenze, però, sono già ben evidenti. «La gente non ha di che vivere – conferma padre Davide –; l’economia familiare si basa sull’agricoltura e sui piccoli commerci quotidiani. Se si chiudono i mercati si muore di fame».
La Chiesa locale, le parrocchie e le missioni si sono subito attivate. Sono state messe a disposizione del governo le strutture sanitarie ecclesiali per eventuali ricoveri di pazienti Covid-19; la Caritas ha preparato aiuti di prima necessità per le famiglie più bisognose; ma soprattutto è stata realizzata tempestivamente un’ampia azione di sensibilizzazione della popolazione. Padre Davide fa parte della task force impegnata in questo ambito. «Abbiamo attivato Radio Sol Mansi che raggiunge gli angoli più remoti del Paese – dice il missionario -. E poi abbiamo mandato in giro auto, motorini e tutti i mezzi possibili con gli altoparlanti che trasmettono spot e musiche fatte apposta sul tema del Coronavirus. Nel frattempo, abbiamo pensato a come aiutare le tantissime famiglie che non riescono a mangiare perché costrette a rimanere a casa».
Quello della casa è un altro tema cruciale. Che cosa significa, infatti, stare in casa in un continente dove milioni di persone non hanno una vera abitazione? O mantenere il distanziamento sociale per coloro che vivono in baraccopoli sovraffollate dove l’accesso all’acqua è limitatissimo, le condizioni igieniche precarie e le famiglie sono stipate in catapecchie anguste? E chi una casa non ce l’ha come le migliaia di bambini di strada che vivono ai margini della società?
Ne sa qualcosa padre Maurizio Bezzi, missionario del Pime che per una trentina d’anni si è occupato degli enfants de la rue di Yaoundé, la capitale del Camerun. Il Centro Edimar, che lui stesso ha fondato, è un punto di riferimento per centinaia di ragazzi costretti a sopravvivere in strada e ad arrangiarsi con espedienti di tutti i tipi. «Siamo stati obbligati a chiudere il Centro, in ottemperanza alle disposizioni governative – dice il missionario -, ma con i nostri educatori cerchiamo comunque di seguire i ragazzi, specialmente i più piccoli, andando in strada o nei luoghi in cui si ritrovano. Quando è possibile, li orientiamo a tornare al villaggio o a raggiungere qualche parente. La situazione è davvero problematica. Questi ragazzi sono a rischio non solo per il virus: la pandemia, per loro come per molti altri, va ad aggiungersi a condizioni di estrema precarietà».
«Alcuni ex ragazzi e ragazze di strada hanno figli piccoli – aggiunge Mireille Yoga, attuale responsabile del Centro Edimar -; per loro abbiamo organizzato distribuzioni di pacchi-famiglia con generi alimentari i cui prezzi, in queste settimane, sono saliti moltissimo».
A Yaoundé, il Pime ha anche un seminario filosofico, che ospita attualmente giovani di diversi Paesi africani. Tutti in auto-isolamento. Del resto, anche le chiese, i luoghi di culto o di comunità sono stati sottoposti, un po’ ovunque in Africa, a misure molto rigide di chiusura vera e propria o di drastica riduzione del numero di persone radunate. E quasi sempre, con grande senso di responsabilità – dalle Conferenze episcopali ai singoli parroci sino ai missionari – le ordinanze sono state rispettate scrupolosamente.
Tutte le cerimonie e i riti legati alla Pasqua, ad esempio – che in Africa sono molto sentiti e partecipati – sono stati annullati e trasmessi sui media più vari, con grande impegno e anche con molta creatività. Ma non senza fatica o tristezza. «Per tutta la vita – racconta padre Romano Stucchi, superiore provinciale dei missionari del Pime nel Nord della Costa d’Avorio – ho cercato di far capire alla gente l’importanza di andare in chiesa. Quest’anno, per la prima volta, alla vigilia di Pasqua, ho vissuto la frustrazione di dover rimandare i fedeli a casa».
Padre Romano ha sempre operato in contesti di prima evangelizzazione, come la missione di Morondo, in cui si trova ora, dove i cristiani sono una trentina più pochi altri sparsi in 12 cappelle nei dintorni. Eppure, anche qui le misure anti-Coronavirus sono state applicate con molta severità, nonostante il rischio di assembramento fosse alquanto remoto. E così, chiese chiuse a partire dalla domenica delle Palme, ma anche grande impegno per garantire un po’ di vicinanza. «Ogni giorno mandavo un messaggio la mattina e la sera per offrire spunti sul senso della giornata e commentarne i testi. Così ci siamo sentiti meno soli e abbiamo comunque potuto vivere con profondità i momenti forti della Settimana santa».
Forme diverse di vicinanza vengono sperimentate anche in Algeria, uno dei Paesi africani più colpiti dal Coronavirus e anche da misure di contenimento particolarmente drastiche, come la chiusura totale della regione di Blida e il coprifuoco parziale in tutte le città. «Le attività si sono fermate, ma non le relazioni – commenta padre Piero Masolo dalla casa del Pime di Algeri -. C’è molta comunicazione per telefono e sui social. Anche Chiara e Toto La Loggia, che sono qui con i loro due bambini per conto dell’Associazione Laici Pime (Alp), continuano a fare lo stesso con i giovani algerini con cui lavorano nel teatro e nelle attività culturali. Ci fa sentire meno soli, perché c’è la consapevolezza di “portarsi” a vicenda. Tutto questo è prezioso e ci fa molto bene».