La testimonianza di dom José Negri, missionario del Pime e vescovo di Santo Amaro, nell’immensa periferia della metropoli brasiliana diventata oggi il nuovo epicentro del Covid19: «I poveri che bussano alle parrocchie sono quadruplicati. La scelta di non rinunciare al business del Carnevale ha portato a questa tragedia. Ma ancora oggi il governo non vuole ascoltare la nostra voce»
San Paolo è il nuovo epicentro dell’emisfero Sud dell’epidemia di Coronavirus. Sì, perché l’immensa San Paolo non è solo la città più grande e ricca di tutto il Brasile (anche se la ricchezza è in mano a pochi e questo crea una assurda disparità sociale), ma lo è di tutto l’enorme continente Sudamericano. E così l’infelice e drastica crescita dei numeri brasiliani (al 26 maggio 2020 in tutta la Nazione si contavano 24.512 morti e 391.222 casi), riguarda soprattutto la capitale dell’omonimo Stato e in particolare la sua sconfinata e problematica periferia. Dove il Pime lavora da oltre cinquant’anni e dove padre Giuseppe Negri, da sei, è vescovo della diocesi di Santo Amaro (diventando per tutti dom José Negri), nell’area Sud della metropoli, con oltre 3 milioni e 200 mila abitanti.
Dom José qual è la situazione?
«Non eravamo preparati. E sono in atto due tendenze: la prima è quella di chi fa finta di niente, la seconda è di chi estremizza. I media stanno infondendo una paura a tratti eccessiva, portando a livelli di ansia generalizzata. In mezzo a questi due estremi c’è la popolazione, la gente comune. Qui, nella grande periferia di San Paolo, la gente ha paura ma allo stesso tempo non riesce e non può stare a casa, perché in generale le condizioni abitative sono pessime: si parla di nuclei familiari enormi stipati in due o tre locali. Certo, l’emergenza sanitaria è reale».
E poi c’è l’emergenza sociale.
«Sì, che è ben maggiore. La maggioranza delle persone lavora a giornata. la chiusura delle attività e la quarantena hanno lasciato centinaia di migliaia di lavoratori senza occupazione e salario. Dopo due mesi di quarantena la situazione è tragica: i sacerdoti della diocesi dicono che i poveri in coda per la cesta basica sono quadruplicati. Quadruplicati. La crisi è gigantesca. Si muore di Coronavirus e anche di fame. E poi ci sono i più poveri tra i poveri, gli ultimissimi, i dimenticati. Che stanno ancora peggio».
Ha parlato di quarantena. Sta funzionando?
«Purtroppo no, ma il problema è a monte. Il problema sono le decisioni di chi governa. Che, per certi versi, hanno persino peggiorato la situazione. Prendiamo per esempio le limitazioni al traffico della scorsa settimana, con le targhe alterne: hanno portato più persone sui mezzi pubblici, quindi più vicine, in uno spazio ristretto. La grande periferia di San Paolo serve il centro città, la forza lavoro si sposta tutti i giorni verso il centro: sono decine e decine di migliaia di uomini e donne. I sacerdoti della diocesi sono 200: li chiamo tutti, ogni due settimane. Così faccio sentire loro la vicinanza. Mi raccontano di intere famiglie contagiate. E il governo non vuole ascoltarci, non vuole sentire la nostra voce».
La periferia ha le sue regole, insomma.
«Certo. Altro esempio: nelle notti del fine settimana, in periferia, soprattutto nelle baraccopoli e nelle favelas, che oggi si chiamano comunità, vengono organizzati i cosiddetti pancadão. I giovani si radunano a migliaia, migliaia. Chiudono alcune strade con le macchine, cioè occupano lo spazio. C’è musica a tutto volume per tutta la notte. E poi droga e alcool. Ecco, queste feste stanno continuando. Diversi sacerdoti mi hanno raccontato di aver chiamato più volte la polizia per intervenire, ma nessuno fa nulla. E in queste feste ci sono tutti in strada senza mascherina, ammassati».
Come per il Carnevale, vero?
«Esatto. Qui del Coronavirus si sapeva già prima del Carnevale. Solo che il governo non è intervenuto. Anzi, ha preferito distribuire 500 milioni di preservativi gratuitamente invece che comprare mascherine e gel igienizzante e investire nelle strutture sanitarie. Hanno preferito far finta di nulla in nome del più grande business del Paese. Non hanno affatto pensato al bene delle persone. E oggi ne paghiamo le conseguenze. A questo proposito faccio un altro esempio: a gennaio lo Stato del Minas Gerais è stato letteralmente distrutto da alcune alluvioni. Ci sono intere città che ancora si stanno ricostruendo. C’è una città che aveva sospeso le feste di Carnevale per la ricostruzione. E oggi in quella città non ci sono contagi».
Quale sarebbe la soluzione?
«Fare test a tappeto. Noi abbiamo già avanzato la nostra disponibilità: noi, come diocesi, abbiamo i volontari. Sono migliaia, pronti a mettersi al lavoro per il bene comune. Basterebbe organizzare il tutto, noi mettiamo a disposizione i volontari».
Come la chiesa di Santo Amaro si sta facendo prossima alle famiglie?
«La Caritas diocesana sta organizzando la distribuzione dei beni primari e delle ceste basiche. Ogni parrocchia poi si è mossa per far fronte alle richieste dei poveri. Ci sono anche preti e parroci che stanno soffrendo: dopo due mesi di chiusura, ci sono sacerdoti che non stanno ricevendo la colletta e quindi ci chiamano per chiedere un aiuto economico. Dal punto di vista liturgico, tutti hanno fatto uno sforzo immane, grandioso: ogni parrocchia si è organizzata per trasmettere online messe, momenti di preghiera, veglie pasquali. E poi non è mancata la vicinanza agli anziani e ai malati: i preti si sono fatti prossimi, hanno fatto visita a queste situazioni estreme, non si sono tirati indietro».
E adesso si riapre?
«La prefettura ha dato questa possibilità. Si può tornare a celebrare ma con il 30 per cento del riempimento delle chiese. Alcune delle 120 parrocchie della diocesi si sono già attivate. Io ai preti sto dicendo di coltivare le amicizie tra loro, di non restare soli e isolati. Anche loro stanno soffrendo, la periferia è difficile. Ci sono alcuni sacerdoti in terapia. E due sono morti. Da quando sono vescovo non mi era mai capitato di celebrare un funerale di un sacerdote, perché qui la Chiesa locale è molto giovane».