«Il lungo Coronavirus del mio Perù»

«Il lungo Coronavirus del mio Perù»

Missionario monfortano in Perù da 35 anni padre Taddeo Pasini racconta l’epidemia dalle porte di Lima, una delle metropoli più colpite dell’America Latina: «Siamo in emergenza nazionale dal 15 marzo. È una situazione molto difficile, ma ci sta insegnando anche molto»

 

Nelle ultime settimane l’America Latina è diventata il nuovo epicentro del Covid-19. In un contesto segnato da alti tassi di disuguaglianza e povertà, condizioni sanitarie precarie e estrema urbanizzazione, il virus ha già mietuto circa 50.000 vittime. Soprattutto in Brasile, Messico e Perù. Nonostante il Paese andino abbia attivato fin da subito una serie di misure restrittive. «Il presidente Martín Vizcarra ha dichiarato lo stato d’emergenza nazionale il 15 marzo, quando i casi registrati erano solo 71 – testimonia padre Taddeo Pasini, missionario monfortano in Perù -. Sono state chiuse le frontiere e alle persone è stato imposto di uscire di casa solo per l’acquisto di generi di prima necessità o per comprovate esigenze lavorative».

Il lockdown è iniziato prima in Perù che in Francia e Regno Unito – all’epoca ben più avanti nella curva dei contagi -. Le precoci misure restrittive, però, non hanno dato i risultati sperati: ad oggi, nel Paese andino si contano circa 150.000 positivi e oltre 4.000 decessi. Il primo caso è stato registrato il 6 marzo: 25 giorni dopo gli infettati erano già 1.000. Dal 26 maggio il numero di contagiati è cresciuto in maniera esponenziale, con un incremento giornaliero di circa 5.000 nuovi casi.

«I maggiori problemi sono a Lima – prosegue il missionario bergamasco, originario della Valle Seriana -. Le principali città del Perù, tra cui la capitale, sorgono lungo la fascia costiera e costituiscono un forte richiamo per la gente delle aree interne che, alla ricerca di condizioni di vita migliori, si sposta verso i centri urbani, invadendo abusivamente territori alle porte di essi. La sola Lima ospita un terzo dell’intera popolazione nazionale, arrangiata in quartieri sovrappopolati e scarsamente salubri. Non stupisce che il 70% dei casi venga registrato proprio nella capitale».

Da qualche giorno padre Taddeo si è spostato da Tingo María, nella regine di Huánuco, a Ñaña, poco lontano dalla baraccopoli di Huaycán, alle porte di Lima: sono queste, infatti, le principali comunità in cui opera il missionario monfortano, in Perù da 35 anni. «La diffusione del virus è avvenuta in maniera disomogenea. Le aree più colpite sono quelle densamente urbanizzate: nelle sovrappopolate barriadas di periferia, la gente vive in maniera precaria, senza acqua corrente e idonei sistemi di fognatura. Diversamente, nella selva, dove gli insediamenti umani sono più radi, il contagio è stato circoscritto».

Benché la regione di Huánuco – estesa il doppio del Veneto – conti solo 800 positivi, la comunità religiosa di Castillo Grande presso Tingo María ha comunque dovuto attenersi alle disposizioni governative. Le chiese sono state chiuse e le funzioni sospese. «Abbiamo continuato a celebrare la Messa. Ogni giorno alle 17. Rendendo i fedeli partecipi tramite Facebook e Whatsapp. Anche durante la Quaresima, ci siamo attivati per trasmettere Via Crucis e rosario. La comunità parrocchiale ha risposto presente a queste iniziative. Alcune persone, sapendo che senza Messe non raccogliamo elemosina, si sono addirittura preoccupate per noi sacerdoti: ogni giorno, riceviamo polli, uova e frutta. È davvero commovente vedere la solidarietà e il cuore della gente, pur in un momento di estrema emergenza».

Dal canto loro, i preti della comunità si sono attivati per garantire a 30 famiglie della zona cesti con beni di prima necessità fino a dicembre. Un aiuto che si somma al sussidio governativo di circa 200 dollari per i nuclei in difficoltà. «Più del 70% dei peruviani vive di un lavoro informale. Per loro è impossibile stare a casa per un periodo così lungo: ecco perché, nonostante il prematuro lockdown, il Paese è in piena emergenza. Tante persone, ad esempio, non hanno il frigorifero: perciò sono costrette a uscire regolarmente per comprare da mangiare. Di conseguenza, gli affollati mercati di strada sono diventati il principale veicolo del contagio. Inoltre, lo smart-working è impossibile per gran parte della popolazione: pochi hanno un computer e, in ogni caso, gran parte della forza lavoro è occupata nel settore dell’agricoltura o dell’industria pesante».

Nel frattempo, in assenza di adeguati strumenti di protezione personale e all’interno di strutture sanitarie al collasso, molti medici e infermieri hanno perso la vita. Allo stesso modo, diversi poliziotti, impegnati nel disincentivare le uscite, si sono ammalati. Il Governo ha prolungato la quarantena fino al 30 giugno: gran parte delle attività commerciali rimane chiusa, mentre in alcune fabbriche e miniere si continua a lavorare, con conseguente rischio di contagi.

«È una situazione difficile, ma che insegna molto – conclude padre Taddeo -. Un virus invisibile ci ha ricordato la fragilità della natura umana. Non siamo i padroni del mondo: ora che l’essere umano è in ginocchio, i ruscelli sono tornati limpidi e il cielo di Lima è meno inquinato. Bisogna ripartire da qui, da ciò che è veramente essenziale. Solo così si può pensare di costruire una società più sobria e meno protesa verso il profitto».