Sulla Corea del Nord persiste lo stereotipo di Stato-prigione refrattario a ogni cambiamento. Ma, da alcuni anni, il Paese vive drastici e rapidi mutamenti: economici, sociali e politici
Il libro Fuga dal Campo 14 di Blaine Harden sulla drammatica storia di Shin Dong-hyuk, unico prigioniero fuggito da un campo di rieducazione della Corea del Nord (edito in Italia l’anno scorso da Codice), ebbe un’eco mondiale e fu portato a testimonianza da numerose organizzazioni dei diritti umani sulle crudeltà del regime di Pyongyang verso i dissidenti. Anche la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui Diritti umani nella Repubblica democratica popolare di Corea nel suo rapporto di un anno fa fece più volte riferimento alla storia di Shin nel delineare l’allarmante situazione nel Paese.
Se sull’esistenza dei campi di prigionia non vi è alcun dubbio, molte perplessità rimangono su ciò che avviene al loro interno. Incertezze oggi rafforzate dalla confessione dello stesso Shin Dong-hyuk secondo cui alcune affermazioni riportate nel suo libro e nel documento della Commissione Onu non sarebbero reali. Sia ben chiaro: l’efferatezza con cui Pyongyang tratta i propri cittadini considerati controrivoluzionari o socialmente pericolosi non è in discussione. Ma il polverone che l’ammissione di Shin ha sollevato – oltre a gettare un’ombra di discredito sui racconti dei rifugiati nordcoreani all’estero – è sintomatico del modo con cui le notizie provenienti dalla Corea del Nord vengono generalmente date per assodate dai media occidentali senza effettuare alcun riscontro. Di esempi se ne potrebbero fare a decine, a partire dalla notizia, riportata recentemente su quasi tutti i gli organi di stampa, della nazionale di calcio imprigionata all’indomani della finale dei Giochi d’Asia persa contro i fratelli sudcoreani, per continuare con l’imposizione alla popolazione maschile del taglio di capelli del giovane leader Kim Jong-un, o l’uccisione dello zio Jang Song-thaek da parte di un branco di cani affamati. Non aiuta il fatto che, per interpretare le notizie provenienti dalla Corea del Nord, occorre una buona dose di esperienza e conoscenza del Paese, mentre mettervi piede è ancora piuttosto complicato. Ma allora, qual è il volto di questa nazione spesso soprannominata “Regno eremita”?
Ponendo da parte gli stereotipi di uno Stato-prigione chiuso, refrattario a ogni cambiamento e retto da un leader descritto come un giovincello incapace e tirannico, scopriremo una terra che, dall’inizio del XXI secolo, è soggetta a drastici e veloci mutamenti sia economici che sociali, oltreché politici. A partire proprio da uno dei temi su cui il Paese è spesso messo sotto accusa: i diritti umani.
Da almeno tre lustri le maglie del governo verso chi contesta la politica del Partito del Lavoro si sono allentate giungendo anche a rivoluzionare le regole di confinamento. Le condanne, che prima erano collettive, oggi colpiscono solo l’individuo permettendo alla propria famiglia di continuare a vivere in libertà, seppur con alcune restrizioni (non sono possibili trasferimenti, iscrizioni al Partito, o l’impiego in uffici pubblici considerati di vitale importanza). Le stesse condizioni all’interno dei campi sembrerebbero essere relativamente migliorate.
La riforma penitenziaria è solo l’ultima delle azioni di riorganizzazione economica e sociale avviate da Kim Jong-il, padre dell’attuale leader, all’indomani della catastrofica crisi alimentare degli anni Novanta che avrebbe mietuto centinaia di migliaia di vittime. Gli effetti di tali cambiamenti si mostrano in tutta la loro incisività nelle città, Pyongyang e Wonsan in particolare, ma si allargano, seppur in modo più attenuato, anche nelle campagne.
La lenta ma costante penetrazione dell’economia di mercato ha, almeno in parte, sollevato lo Stato dal gravoso impegno di rifornire i negozi e i propri cittadini di beni di prima necessità. Il miglioramento della produzione agricola ottenuto grazie all’ammodernamento del parco macchine, a un costante rifornimento di pezzi di ricambio e a una riforma che tollera la vendita privata di prodotti, ha eliminato la fame da quasi tutto il Paese, anche se Pyongyang continua a sfornare dati di raccolti inferiori rispetto alla reale produttività. Un espediente per sperare di ottenere maggiori aiuti dai Paesi donatori.
Sino a qualche anno fa avrebbe potuto anche funzionare, ma oggi, con le riprese satellitari e un accesso più capillare alle aree più remote del Paese da parte delle organizzazioni internazionali, il controllo si è fatto più preciso, tanto che attualmente si parla di malnutrizione, ma non più di morte per inedia. Merito anche dei massicci aiuti (circa 800.000 tonnellate di cibo ogni anno) provenienti principalmente da Corea del Sud, Cina e Stati Uniti.
Sebbene Kim Jong-un abbia incominciato a reintrodurre il sistema di distribuzione alimentare controllato dallo Stato, interrotto dal padre all’inizio degli anni Novanta, solo il 40% della popolazione ne può usufruire; il resto si affida a un “fai da te” che vede nei golmikjang, i mercati non ufficiali ma tollerati dal governo e presenti in ogni distretto, la punta di diamante di un nuovo mercato emergente. Sulle bancarelle dei contadini un chilo di riso costa tra i 4.000 e i 7.000 won. Un prezzo esorbitante se confrontato ai 44 won al chilo fissato nei negozi statali, i cui scaffali, però, sono spesso desolatamente vuoti. Il costo diverrebbe addirittura proibitivo se si pensa che lo stipendio medio di un nordcoreano è di 7.000 won al mese: 50 dollari al cambio ufficiale che si riducono a soli due dollari al mercato nero.
Come sopravvivono allora i nord coreani? Semplicemente ingegnandosi a occupare quelle nicchie di mercato che lo Stato non riesce a soddisfare. Il commercio illegale con la Cina da parte di intraprendenti trafficanti che attraversano il confine importando merce di contrabbando non solo non è più represso, ma è persino tollerato perché da una parte rende disponibile alla popolazione merce di prima necessità altrimenti impossibile da reperire e, dall’altra, accorda alle guardie di frontiera lauti guadagni con le “mance” lasciate dai commercianti.
Nei golmikjang delle cittadine di frontiera la moneta di scambio è ormai lo yuan (o il dollaro, a volte lo yen), che ha soppiantato lo won: un paio di scarpe costa 250 yuan, un paio di pantaloni 80, un soprabito 200 yuan.
Nelle città (ultimamente anche in alcuni villaggi di campagna) è ormai comune vedere l’apertura di ristoranti, birrerie, caffè gestiti da famiglie o da privati e dove un pasto costa tra i quattro e i cinque dollari. Quasi tutti gli ingredienti provengono dall’estero. I locali più “eleganti” servono anche cibi e bevande giapponesi o sudcoreane (a Pyongyang è stata recentemente aperta anche una pizzeria).
È la nuova economia che avanza e che permette a una famiglia media di aumentare anche di venti volte gli introiti. Il guadagno medio di un nucleo famigliare è di centomila won al mese (una cameriera di questi ristorantini guadagna 40-50 dollari al mese) ma un negozio di alimentari riesce a raggiungere anche i cinquecento dollari al mese.
Nuovi status symbol sorgono e, a testimonianza di come la nazione stia mutando, oggi non vengono più nascosti ma addirittura ostentati. Sebbene sia impossibile comunicare con l’esterno, il numero di nordcoreani che compra telefonini è in continuo aumento, così come in aumento sono le famiglie che dispongono di frigoriferi, televisioni, radio. Lungo le strade delle principali metropoli non è difficile osservare adulti e ragazzi giocherellare con smartphone o farsi dei selfie. In quattro anni qui sono stati venduti circa tre milioni di cellulari, molti dei quali Apple o Windows (Nokia).
C’è una classe di nuovi ricchi che sta prendendo piede nel Paese. Questo drastico cambiamento sta rivoluzionando anche l’assetto sociale e politico della Corea del Nord.
Il servizio militare, un tempo riservato all’élite e alle famiglie più legate al Partito dei Lavoratori, oggi è visto come una palla al piede perché allontana i rampolli per dieci anni dalla vita economica. Così si cerca di evitare la coscrizione obbligatoria elargendo mance agli ufficiali. Si spiega così la recente mossa del governo di includere anche le donne nella ferma militare per sopperire alla fuga di matricole.
L’improvvisa disponibilità di denaro liquido che molti si sono trovati a gestire ha innescato la corsa agli investimenti immobiliari. La proprietà privata è tuttora proibita, ma ogni famiglia ha diritto a un appartamento. Come fare, allora, per poter investire nel mattone? Semplice: le famiglie più abbienti ricorrono a un espediente del tutto legale: lo scambio di appartamenti. La legge non impedisce agli inquilini consenzienti di mutuare le abitazioni concesse loro dallo Stato; accade così che chi ha denaro liquido “acquisti” il baratto andando ad abitare in appartamenti centrali abitati da famiglie che accettano di cambiare locazione in posizioni meno vantaggiose. La permuta di un locale di circa 100 mq in un quartiere centrale di Pyongyang costa circa 150 mila dollari che salgono a 200 mila se l’appartamento si trova nei piani inferiori (spesso gli ascensori non funzionano per mancanza di energia elettrica o perché guasti…). Attorno a questo commercio si sono create agenzie che mutuano le trattative tra gli inquilini.
Ma non è solo la società a trasformarsi: anche il regime, considerato a torto monolitico e inamovibile, in questi anni ha subito e continua a subire scossoni. I repentini cambi di cariche, di ministri, l’esecuzione di importanti personalità della nomenklatura e, soprattutto, i movimenti all’interno della famiglia Kim denotano che la leadership del Paese si sta preparando a un prossimo cambio di direzione politica. Kim Jong-un è, alla fin fine, un leader che si è dimostrato accorto e capace di governare una nazione contro tutte le aspettative che lo vedevano troppo giovane e inesperto. Due qualità (specialmente la prima) considerate fatali in una società di stampo confuciano dove la saggezza e il rispetto vanno di pari passo con l’età.
Un ruolo fondamentale lo hanno giocato gli anni della sua carriera scolastica a Berna, che hanno permesso al leader di comprendere i meccanismi delle democrazie occidentali, entrare in contatto con le loro società e, soprattutto, “assaggiare” un altro tipo di mercato.
Forse è stata proprio questa sua formazione atipica (ma non unica: sono sempre più i nordcoreani che vengono inviati all’estero per imparare i disegni economici mondiali) a determinare un deciso voltafaccia verso la Cina a favore del nemico storico: la Corea del Sud. L’esecuzione di Jang Song-thaek nel 2013 e i cambiamenti ancora in atto nell’apparato del Partito sembrano dovuti proprio all’intenzione di Kim Jong-un di sganciarsi dall’orbita cinese, la cui forza gravitazionale era rappresentata dallo zio.
Tra il 2010 ed il 2012, anni in cui Jang Song-thaek era vice della potentissima Commissione nazionale di difesa, la dipendenza nordcoreana dalla Cina salì dal 57% al 70% del commercio totale di Pyongyang. Nel 2014, l’anno seguente l’eliminazione di Jang Song-thaek, il commercio tra i due Paesi ha visto la prima flessione dal 2009. Viceversa le transazioni con la Corea del Sud sono in aumento, sebbene abbiano subito notevoli variazioni a causa delle tensioni geopolitiche. Sono più di cento le aziende di Seul che operano a nord del 38° parallelo. Molte sono insediate nella Zona ad economia speciale di Kaesong, lungo la linea d’armistizio del 1953, in cui sono occupati 53 mila lavoratori nordcoreani. L’alto livello di professionalità delle maestranze, la mancanza di rivendicazioni sindacali, i bassi salari e, non ultimo, la facilità di comunicazione linguistica sono incentivi sufficienti a convincere le aziende sudcoreane a investire a Kaesong.Il rilassamento delle relazioni tra Pyongyang e Seul si respira anche nelle case dei nordcoreani e nei golmikjang.
I dvd delle soap opera sudcoreane vanno letteralmente a ruba e le autorità del Nord, sapendo che praticamente ogni casa possiede una radio a onde corte con cui captare le trasmissioni dall’estero, non si preoccupano neppure più di trasmettere l’antiquata e retorica propaganda contro i fratelli del Sud.
La volontà di Pyongyang di comprendere e ingranare il funzionamento del mercato capitalista si è resa evidente sin dal 2004, quando lo svizzero Felix Abt fondò la Pyongyang Business School, un istituto che ha formato funzionari ministeriali e manager nordcoreani nella prospettiva di un’apertura verso l’esterno. In nome degli affari. MM