La Nazione Navajo ha il più alto tasso di contagio nel Paese: il Coronavirus mette in luce le disuguaglianze sociali che da sempre affliggono le comunità indigene. Che, come gli afroamericani, oggi rivendicano dignità
Il razzismo e la violenza nei confronti degli afroamericani sono tornati, come purtroppo avviene ciclicamente, di drammatica attualità in questi giorni negli Stati Uniti. Ma quella nera non è l’unica comunità vittima di discriminazioni e svantaggi sociali in un Paese che non riesce ancora a garantire uguaglianza e pari opportunità a tutti i suoi cittadini.
Al tempo del Coronavirus, che ha colpito gli Usa più di qualunque altra nazione al mondo, proprio la pandemia sta rappresentando l’ultima, gravissima, minaccia ai danni dei nativi americani, circa due milioni e mezzo di persone rimaste in tutto, dopo le ripetute prove che hanno dovuto affrontare nella loro storia recente.
Gli indiani vivono di fatto confinati nelle riserve, realtà accomunate da povertà e mancanza di risorse, e proprio in quella Navajo – 173 mila individui su un territorio a cavallo tra New Mexico, Utah e Arizona – si registra attualmente il più alto tasso di contagio pro capite nel Paese, peggiore, con 2.450 casi per 100 mila abitanti, rispetto a focolai come New York e New Jersey. La situazione è talmente critica che l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere ha deciso di inviare, per la prima volta all’interno degli Stati Uniti, un suo team sanitario per venire in soccorso della popolazione.
L’impatto pesante del virus sulle comunità autoctone in Nord America non è casuale. Molti problemi sanitari che aumentano i tassi di mortalità del Covid-19 come ipertensione, diabete, obesità e malattie cardiovascolari sono endemici tra i nativi americani. Fattori spesso connessi alla sostituzione dei sistemi alimentari indigeni. E la situazione è aggravata dalla scarsità di strutture e risorse. La Nazione Navajo, già colpita tra l’altro da un’alta percentuale di patologie legate alle scorie radioattive delle miniere di uranio, soffre di una diffusa povertà tra la popolazione: tra il 30 e il 40% delle famiglie non ha accesso a servizi di base come l’acqua corrente, il che rende impossibile osservare le misure igieniche fondamentali per prevenire la diffusione del virus.
Molte case – spesso prefabbricati o roulotte – accolgono inoltre più generazioni dello stesso nucleo familiare e praticare il distanziamento sociale è complicato. Persino il cibo sta diventando un bene di lusso: in un contesto in cui già normalmente il 76% delle famiglie ha difficoltà a permettersi alimenti sani e il negozio più vicino è a un’ora d’auto di distanza, le restrizioni causate dalla pandemia hanno ulteriormente ridotto l’accesso alle forniture alimentari.
«Abbiamo il cuore spezzato dalle notizie sulle comunità indigene che stanno soffrendo per la pandemia con tassi sproporzionatamente alti e siamo preoccupati per la mancanza di risorse sufficienti per rispondere alla crisi», hanno dichiarato in un comunicato i vescovi americani. Sottolineando come l’attuale pandemia stia «esacerbando le disparità di salute e le disuguaglianze sociali di lunga data che affliggono le comunità native e indigene», hanno aggiunto: «Imploriamo i legislatori e i funzionari del governo di proteggere la vita e la dignità dei popoli indigeni lavorando con i leader delle tribù in modo da garantire un forte sostegno e ampie risorse per proteggere le loro comunità dalla minaccia del Covid-19».
In verità, gli stanziamenti a favore dei nativi previsti dal piano di emergenza del governo di Washington – 8 miliardi di dollari invece dei 20 richiesti, da suddividersi fra le 573 tribù – sono stati gravemente rallentati dalla burocrazia, come ha denunciato il presidente della Nazione Navajo Jonathan Nez.
Non solo. Gli sforzi dei locali governi tribali per affrontare la pandemia monitorando gli ingressi nelle riserve per evitare l’aumento dei contagi sono stati in molti casi ostacolati dalle autorità statali e federali. Ma nonostante la minaccia di azioni legali contro di loro, varie tribù, dal South Dakota all’Arizona al New Mexico, hanno organizzato posti di blocco lungo le strade che attraversano i territori indiani per cercare di evitare il collasso dei loro precari sistemi sanitari. «I nostri checkpoint stanno salvando vite e nessuno lo farà al posto nostro», ha dichiarato il presidente della tribù Sioux di Cheyenne River, Harold Nez Frazier.
Se la Chiesa cattolica, attraverso le sue organizzazioni, parrocchie, missioni e scuole, sta facendo il possibile per stare a fianco delle comunità native in questo momento di emergenza, è evidente che la sfida attuale assesterà un ennesimo, duro colpo a questo popolo per cui i fantasmi del passato tornano a tormentare il presente. «Il virus Sars-CoV-2 è nuovo, ma le minacce pandemiche alle popolazioni indigene sono tutt’altro che nuove», hanno scritto in un intervento tre scienziati della Colorado State University. «Malattie come il morbillo, il vaiolo e l’influenza spagnola hanno decimato le comunità dei nativi americani fin dall’arrivo dei primi colonizzatori europei».
Anche per gli indiani d’America, così come per gli afroamericani, sarebbe ora di fare un passo in avanti verso la parità di diritti e opportunità con tutti gli altri cittadini statunitensi.