Li abbiamo visti nelle immagini alla televisione, qualche settimana fa. Ma adesso dove sono finite le migliaia di migranti indiani costretti a lasciare le metropoli per aver perso il lavoro a causa del lockdown? Ce lo racconta mons. Rayarala, missionario del Pime e vescovo di Srikakulam nell’Andhra Pradesh: «Ci sono famiglie delle nostre parrocchie arrivate a piedi dopo aver percorso migliaia di chilometri. E ora la malattia si è diffusa anche qui»
«Hanno percorso a piedi migliaia di chilometri. Tornati al villaggio perché con il lockdown avevano perso il lavoro e tutto quanto. Ci hanno raccontato storie pazzesche: iniziative di solidarietà incontrate lungo il cammino, ma anche posti che sbarravano le porte per non farli entrare. Questa è casa loro, l’unica cosa che gli è rimasta. E adesso insieme a loro anche in Andhra Pradesh ci troviamo a fare i conti con il Covid-19».
In questi giorni ha ricordato il primo anniversario dalla sua nomina a vescovo di Srikakulam, diocesi dell’estremo nord dell’Andhra Pradesh in India. Una ricorrenza che mons. Vijay Kumar Rayarala, missionario del Pime, sta vivendo nel pieno dell’emergenza Coronavirus. Come sentiamo dai telegiornali l’India fa infatti segnare oggi giorno nuovi record di contagi; ma – soprattutto – l’epidemia non è più confinata alle sole aree metropolitane. Con i suoi quasi 60 mila casi accertati (grosso modo 100 ogni 100 mila abitanti) e ben 758 morti il rurale Andhra Pradesh è uno degli Stati indiani dove l’epidemia oggi sta crescendo in maniera più significativa. E il motivo non è difficile da capire: è l’onda lunga del grande esodo dalle città ai villaggi iniziato con il lockdown di marzo. «All’inizio il problema del Covid-19 toccava solo le metropoli – conferma il vescovo Vijiay -: per un mese e mezzo qui non abbiamo avuto nessun caso. Ma la situazione è cambiata quando sono cominciati ad arrivare questi nostri fratelli».
Com’è la situazione oggi nella diocesi di Srikakulam? «Da una parte la preoccupazione aumenta, sì – risponde mons. Rayarala -. Dall’altra, però, la vita va avanti come se niente fosse. C’è tanta confusione anche nelle notizie; gli stessi test qui non danno sempre risultati attendibili. Si prende qualche pastiglia per curare i sintomi, insieme a un certo fatalismo: chi ce la fa guarisce, chi perde questa battaglia muore. La cosa più allarmante è che secondo gli esperti in India il picco dei contagi sarebbe ancora lontano: c’è chi parla addirittura di novembre…».
Più ancora del virus è la povertà di chi è stato costretto a rientrare il problema oggi più grande. «Questa è una zona che offre poche opportunità – conferma Rayarala -. In migliaia facevano la spola: sei mesi a lavorare ad Hyderabad o nelle altre grandi città e sei mesi a casa. Lo facevano anche tanti cattolici delle nostre comunità. Adesso – dopo aver percorso migliaia di chilometri da soli perché i trasporti erano fermi – si trovano tutti bloccati qui senza prospettive. I confini tra Stati indiani restano chiusi; anche all’interno dell’Andhra Pradesh in alcune zone gli spostamenti sono difficili. La speranza è che possano trovare lavoro qui, ma non è facile».
Anche per questo la diocesi di Srikakulam è in prima linea: «Come diocesi abbiamo dato vita a un programma che abbiamo chiamato Hand to Mouth (un’espressione idiomatica inglese che significa “lo stretto necessario per vivere” ndr) – racconta il vescovo -. In tutte e 36 le parrocchie stiamo aiutando le famiglie dei migranti rientrati segnalate dalla Caritas. Abbiamo già fatto tre giri completi di distribuzioni di pacchi viveri; anch’io ho partecipato personalmente. I bisogni restano molto grandi. In India, adesso, soprattutto in alcune zone, nonostante l’estendersi dell’epidemia le attività sono ricominciate perché il Paese non poteva restare ancora bloccato. Però ci vorrà tempo perché il lavoro riparta davvero: è una situazione davvero tragica».
Il governo dell’Andhra Pradesh, intanto, ha annunciato che a settembre riapriranno le scuole. «Già quest’anno ci sono state grosse difficoltà – racconta il missionario del Pime -. Gli esami per le classi decima e dodicesima sono stati annullati, ammettendo tutti ai corsi successivi. Qui anche la didattica a distanza è un problema perché molte famiglie non hanno gli strumenti per far seguire ai ragazzi le lezioni e quindi il governo locale l’aveva vietata. Adesso vedremo come si riprenderà. Sarà una sfida anche per le nostre dieci scuole diocesane, sperando che la situazione del virus migliori».