Prima l’uccisione di due cooperanti, ora il ferimento di un missionario del Pime, padre Piero Parolari. In Bangladesh, molti si interrogano sull’avanzata dell’estremismo islamista, che sta mettendo in discussione la pacifica convivenza sociale
Il Bangladesh sta cadendo nelle mani dell’estremismo islamico? E per i missionari che lì operano cosa cambierà? Sono domande che sorgono spontanee di fronte ai tragici avvenimenti che colpiscono sempre di più gli stranieri nel Paese. E specialmente dopo l’agguato e il ferimento di padre Piero Parolari.
Lo scorso 28 settembre era stato ucciso un volontario italiano, Cesare Tavella, e di lì a pochi giorni un altro cooperante, Hoshi Koinyo, di nazionalità giapponese. Inizialmente si era parlato di una rivendicazione dello Stato islamico, ma quella pista sembra poco convincente: più probabile che gli autori vadano cercati tra le file dei gruppi estremisti locali.
Giusto dieci anni fa, nell’agosto 2005, il Paese fu scosso dall’esplosione simultanea di ben 50 bombe in varie città a opera di militanti islamici fondamentalisti. Anche allora più d’uno sollevò la questione: il Bangladesh sta radicalmente cambiando pelle?
Proprio nei giorni dell’omicidio-Tavella mi trovavo in Bangladesh, ospite dei missionari del Pime. Il rettore della locale comunità, padre Franco Cagnasso, così commentò il tragico evento: «Doveva accadere, ce lo sentivamo. Non perché ci fossero segnali espliciti, bensì per una serie di fattori concomitanti. Innanzitutto, la natura della proposta del Califfato islamico, attraente agli occhi di molti. A ciò si aggiunge il fatto che, in Bangladesh, esiste un “sottobosco”, al di sotto di una tradizione di islam tollerante, composto da giovani formati nelle madrasse, le scuole islamiche di matrice araba, che hanno una visione non molto tollerante, anche se non direttamente violenta (sebbene, in qualche caso si sia scoperto che alcune erano usate per le conversioni forzate dei tribali e, addirittura, per esercitazioni militari)».
«Quanto accade oggi è l’onda lunga di un fenomeno iniziato anni fa e cresciuto col tempo». Ne è convinto il confratello padre Giulio Berutti, direttore delle Credit Unions (le “banche per i poveri”) della diocesi di Dinajpur: «Già negli anni Settanta il primo dittatore, marito di Khaleda Zia, oggi leader dell’opposizione, per consolidare il potere ha aperto la porta ai partiti islamici, modificando la Costituzione e dichiarando l’islam religione di Stato. Solo nel 1977, i Paesi islamici, alla luce di queste mosse del governo, hanno riconosciuto l’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan. A partire da allora, dal Golfo Persico sono stati riversati sul Paese soldi in gran quantità e abbiamo visto spuntare come funghi nei villaggi moschee in muratura».
Sotto la pressione di forze esterne, dunque, si sta modificando rapidamente il tessuto dell’islam locale, tradizionalmente moderato. E che sin qui i rapporti quotidiani tra musulmani e cristiani siano stati (e siano) generalmente buoni lo dicono molti fatti: negli ostelli cattolici spesso sono accolti ragazzi e ragazze musulmani e, non di rado, anche funzionari attivi in realtà gestite dalla Chiesa cattolica sono di religione islamica. Musulmani sono pure alcuni volontari che partecipano al lavoro con i ragazzi di strada, condotto da fratel Lucio Beninati del Pime per le vie di Dhaka: un’esperienza di frontiera molto interessante.
Non è un caso che, a metà settembre, il cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, in visita in Bangladesh, avesse elogiato «la pacifica coesistenza di differenti religioni nel Paese», incassando l’invito del primo ministro Sheikh Hasina a Papa Francesco a visitare il Bangladesh.
Spiega padre Carlo Dotti, rettore della Pime House di Dinajpur: «Il Bangladesh storicamente è stato islamizzato da predicatori sufi, mistici assolutamente contrari alla violenza. Il rapporto dei cattolici con la popolazione musulmana è in genere disteso, positivo. Io stesso ne ho fatto esperienza: quand’ero a Bogra, ad esempio, avevo un caro amico avvocato, di religione musulmana». Continua: «Il punto è che già dalla guerra di liberazione del 1971, la Muslim League (oggi Jaamat-islam) ha iniziato a battersi per uno Stato confessionale. E il Bnp ha sempre spalleggiato quel partito per calcolo elettorale. Permane, quindi, una frangia di integralisti che vale il 5-6% della popolazione, dalla quale continuamente nascono gruppi nuovi fondamentalisti. Sono numericamente pochi, ma l’animo popolare bengalese è facilmente infiammabile: l’abbiamo visto ai tempi della guerra in Iraq, quando il clima per noi occidentali si era fatto molto pesante».
Il duplice omicidio dei cooperanti stranieri ha acuito le tensioni esistenti tra le due principali forze politiche che da anni guidano, alternativamente, il Paese: l’Awami League di Sheik Hasina, attualmente al potere, e il Bangladesh National Party (Bnp) di Khaleda Zia (cfr. box). Sul Daily Star, uno dei principali quotidiani, è apparsa la notizia secondo cui «il capo del Bnp potrebbe avere un collegamento con l’uccisione di Tavella», mentre il principale partito di opposizione ha denunciato l’incapacità dell’Awami League di mantenere la sicurezza nel Paese. Per tutta risposta, pochi giorni dopo l’omicidio dei cooperanti, le autorità hanno spedito militari nei luoghi “sensibili” (tra questi anche alcune chiese cattoliche), per dare un segnale alla comunità internazionale: tranquilli, la situazione è sotto controllo.
Per capire la situazione attuale, è necessario un passo indietro. L’Awami League è al governo perché uscita vincitrice dal voto del gennaio 2014 a cui però, il Bnp non aveva partecipato, per protesta contro la decisione del governo di non procedere a un periodo di “transizione” (come da tradizione) prima del voto. Risultato: sotto le minacce degli islamisti, alle urne si erano recati meno del 20% degli aventi diritto.
A un anno dalle elezioni, nel gennaio 2015, il Bnp ha indetto una lunga serie di scioperi e il blocco totale dei trasporti che hanno causato pesantissimi danni economici e enormi disagi alla popolazione, il che alla lunga, ha intaccato il consenso dell’opposizione. Nel frattempo il governo è intervenuto pesantemente contro il partito estremista Jamaat-islam, incarcerandone i principali leader, ma sostenitori ne ha ancora molti.
E così, negli ultimi mesi la violenza degli estremisti si è diretta contro una serie di blogger “laici”, causandone la morte: a febbraio Avijt Roy, vicino all’Università di Dhaka; a marzo, Oyasiqur Rahman, anch’egli nella capitale; due mesi più tardi è stata la volta di Ananta Bijoy Das, ucciso a Sylhet. Tutti erano membri del movimento Ganajagaran Mancha, laico e antifondamentalista.
L’ultimo blogger, Niladri Chatterjee Niloy, è stato ucciso a colpi di mannaia sotto gli occhi della madre e della sorella, l’8 agosto scorso. Pochi giorni dopo, è stata diffusa una lettera minatoria in cui venivano minacciati di morte 19 intellettuali impegnati contro il fanatismo religioso, tra cui due ministri. Questa macabra “lista nera” fa seguito a una simile, diffusa dal gruppo estremista Al Kaida Ansarullah Bangla Team 13, che prometteva la morte ai critici dell’islam. A queste forze estremiste si oppongono, dentro il mondo musulmano, voci come quella di Sultana Kamal, avvocato e attivista, leader dell’ong Ain o Salish Kendra, che difende “il diritto a non credere”, considerato una bestemmia dai fondamentalisti.
La risposta della Chiesa alla deriva in atto è principalmente in chiave educativa. Da sempre lo sforzo dei missionari si è orientato sull’alfabetizzazione e sulla formazione umana, spirituale e professionale dei giovani. Ora la Chiesa cattolica ha compiuto un ulteriore passo, varando, nel dicembre 2014, la prima Università cattolica del Paese.
Ho incontrato il principal, padre Benjamin Costa, sacerdote bengalese dell’Holy Cross, nel suo ufficio alla Notre Dame University Bangladesh: «L’educazione promossa dal governo ha fatto passi avanti – spiega – ma la vera sfida è l’innalzamento della qualità dell’insegnamento, a cominciare dal livello di preparazione dei docenti. Come Chiesa cattolica cerchiamo di fornire un servizio educativo di qualità, che contribuisca alla anche formazione umana e sociale dei giovani come futuri cittadini. Ciò significa, ad esempio, educare al rispetto delle diversità, a vedere l’altro come ricchezza e non a giudicarlo in base alle etichette (politiche o religiose che siano). Una sfida difficile, ma non ci tiriamo indietro».
Democrazia fragile
Con i suoi 160 milioni di abitanti (in un territorio esteso quanto l’Italia centro-nord), il Bangladesh rappresenta il terzo Paese musulmano al mondo; quasi il 90% della popolazione professa l’islam.
La densità di popolazione è altissima e ha un impatto notevolissimo sulla vita quotidiana. Il Pil pro-capite è 958 dollari l’anno, il tasso di analfabetismo supera il 40%. La capitale Dhaka – 16 milioni di abitanti – è la prima in classifica tra le città più invivibili al mondo. Inoltre, la posizione geografica e le condizioni climatiche del Bangladesh, spesso vittima di alluvioni, rendono il Paese estremamente vulnerabile.
Il Bangladesh ha un sistema democratico. Due i principali partiti: l’Awami League, moderato, laico e di ispirazione socialista (ne faceva parte Mujibur Rahman, primo Presidente del Paese); il Bnp, sorto nel 1975, di centro-destra, ha favorito l’entrata in scena dei partiti islamisti, specie il Jamaat-islam. In Bangladesh la stampa è libera e c’è libertà di culto per le varie religioni, sebbene la Costituzione dichiari l’islam religione di Stato.
Il Pime in Bangladesh da 160 anni
Diventato missione nel 1855, il Bangladesh accoglie oggi 29 missionari del Pime. La ristretta area del Bengala – dove erano stati destinati i primi padri approdati nel Paese – oggi si è notevolmente ampliata: l’istituto è attualmente presente nelle diocesi di Dhaka, Dinajpur e Rajshahi. Il dialogo con l’islam, il lavoro tra i santal, una delle popolazioni tribali del Bangladesh, e la formazione dei laici sono tutt’ora le priorità della comunità Pime del Bangladesh. Proprio nelle scorse settimane, nelle giornate del 10 e 11 novembre, i missionari attualmente presenti nel Paese si sono riuniti in assemblea a Dinajpur per eleggere il nuovo consiglio direttivo della regione alla presenza del vicario generale, padre Davide Sciocco. L’occasione ha permesso uno scambio di esperienze e un confronto sulla realtà sempre più complessa che il Paese sta vivendo.