Dal cammino Pime a una scuola in Giappone che unisce ragazzi di 97 Paesi: la sfida di Simone e Raffaela, con il piccolo Filippo, a Karuizawa
Dall’apertura al mondo scoperta in missione a un lavoro che mette insieme ragazzi provenienti da quasi 100 Paesi diversi. È la storia singolare di Raffaela Corrias e Simone Sgarbossa, che con il piccolo Filippo – loro figlio – in Giappone sono tra i protagonisti dell’avventura dei “Collegi del Mondo Unito”, una rete internazionale di scuole che in diciotto Paesi, dal Costarica alla Tanzania, fa della convivenza tra ragazzi di nazioni e culture differenti il suo tratto distintivo. Raffaela ha frequentato i cammini del Pime: è stata in Messico con “Giovani e Missione” per poi frequentare anche il cammino biblico. Con Simone, originario di Padova, si sono conosciuti a Madrid durante un programma Erasmus. E proprio la realtà dei “Collegi del Mondo Unito” ha contribuito a imprimere una direzione inaspettata alla vita della loro giovane famiglia. «Lavoravo già nel Collegio di Trieste – racconta Simone -. Poco prima che nascesse nostro figlio si è presentata l’opportunità di venire in Giappone, dove c’era già una scuola simile ma non era ancora parte della nostra rete».
Il Collegio giapponese si trova a Karuizawa, una cittadina residenziale a 200 km da Tokyo. La scuola ha circa 200 studenti tra i 15 e i 19 anni provenienti da 97 Paesi; la percentuale dei giapponesi non supera il 30%. «Non accogliamo solo ragazzi con i mezzi economici per studiare all’estero – spiega Simone -. Ce ne sono anche tanti che arrivano con borse di studio, provenienti da contesti svantaggiati». Lo stesso vale per insegnanti e personale della scuola: c’è qualche giapponese ma il resto viene da nazioni diverse. Gli studenti frequentano gli ultimi tre anni delle scuole superiori, acquisendo un titolo che è un baccalaureato internazionale ma insieme anche un diploma riconosciuto dalla scuola pubblica giapponese. Simone è il coordinatore del dipartimento di lingua e letteratura inglese.
«Prima ancora che una scuola – sottolinea Raffaela – questa è una comunità: noi adulti vogliamo vivere e crescere insieme agli studenti. Una delle peculiarità di questa scuola è far crescere i ragazzi nella leadership. Non però nel senso di farsi una posizione: vogliamo che imparino ad assumersi le proprie responsabilità, a conoscersi e a conoscere gli altri per mettere a frutto i propri talenti». Nella scuola tutti parlano l’inglese, ma esistono anche livelli comunicativi paralleli che hanno a che fare con la cultura e la fede di ciascuno. Ed è in particolare sull’ambito religioso che si concentra il lavoro di Raffaela. «I ragazzi arrivano qui con un forte idealismo, convinti che la diversità sia bella – spiega -. Poi però la luna di miele finisce e comincia a emergere la fatica: imparare la comunicazione interculturale è un percorso, non un’etichetta da mettersi addosso. Il mio lavoro è accompagnarli a fare della diversità una forza. E la chiave è cercare di mettere in dialogo le persone più che comparare i sistemi».
Concretamente al Collegio del Mondo Unito di Karuizawa quest’idea si traduce in una serie di proposte. Una volta alla settimana si riunisce il gruppo di dialogo interreligioso; ogni volta sono i ragazzi a proporre un tema da affrontare insieme: l’amicizia, il perdono, il ruolo della donna, la natura… Ciascuno si prepara e si costruisce il dialogo insieme, lasciando spazio anche al silenzio. Poi ci sono le attività organizzate con la comunità del Pime di Tokyo: facendo base presso la Casa regionale i ragazzi hanno modo di incontrare alcune comunità religiose presenti nella grande metropoli; non sono solo visite a luoghi, ma soprattutto incontri tra persone. Un’altra iniziativa sono i “passi di silenzio”, una giornata di cammino in montagna per un gruppo ristretto, in cui ciascuno si fa accompagnare da una pagina della sua tradizione religiosa a cui guarda nei momenti di difficoltà. In tutto questo come entra la vostra fede cristiana? «Questa non è una scuola confessionale – risponde Simone -, quindi nessuno si aspetta che siano insegnati messaggi religiosi. Non si può fare; ma la diversità è tale che anche se fosse possibile non funzionerebbe. Siamo invece chiamati a trasmettere con l’esempio ciò in cui crediamo. Per me come educatore il punto è prendere sul serio l’idea dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio: vale per ciascuno studente che incontro ed è la ragione vera per cui faccio questo mestiere».
La cultura giapponese ha tra i suoi valori il Wa, cioè l’idea di un’armonia che appiana ogni differenza. Come conciliarlo con un posto come questo? «È importante riconoscere dove siamo – risponde Raffaela – e dunque aiutare anche gli studenti che non sono giapponesi a capire il Wa. Solo quando conosci una cosa puoi sfidarla in senso costruttivo, per andare più in profondità. È il percorso che io stessa sto facendo come cristiana in Giappone: sono in un contesto dove vivere la mia fede è complicato, lontano da Tokyo ad esempio non ho una comunità cristiana a cui fare riferimento. Ecco, noi vogliamo imparare da questo concetto di armonia, ma senza annullare la diversità. Se vuoi veramente essere in dialogo devi essere disposto a perdere qualcosa di te stesso per acquistare qualcos’altro su un altro livello. Perché dialogo non è: ti dico la mia opinione, forse ascolto la tua e poi vado via…».
C’è infine la dimensione del vivere questa esperienza da giovane famiglia: «Per noi è un dono grandissimo essere qui, una scelta ma anche una sfida – riassume Raffaela -. Siamo arrivati senza poter essere introdotti alla lingua e alla cultura locali: stiamo cercando di studiare un po’, ma le nostre interazioni con il mondo giapponese avvengono essenzialmente grazie a Filippo, che va all’asilo. E questo ci crea anche tante domande su una cultura diversa, un sistema di valori diverso, un approccio alla vita diverso… Ci siamo chiesti: ha valore un’esperienza così? Crediamo di sì anche se in un modo diverso da quello di un missionario. In fondo – conclude – stiamo facendo un po’ più in grande l’esperienza dei nostri studenti: una grande ricchezza e tanti punti interrogativi, in particolare su nostro figlio. L’importante è non illuderci di diventare anche noi giapponesi, ma accettare questa esperienza per ciò che è».