Il miraggio ingannevole della grande città, il lavoro che non c’è e, per i cristiani, la consapevolezza costante di essere in minoranza: suor Annamaria Panza racconta le sfide dei ragazzi in Bangladesh
Scoprire la propria strada nella vita non è un’impresa facile. Non lo è in Bangladesh, per un giovane nato in un villaggio di campagna e in cerca di una chance nella grande città, e non lo è nemmeno in Italia, per una ragazza in gamba che ha un buon lavoro e amici sinceri, ma sente che le manca qualcosa.
Lo sa bene suor Annamaria Panza, missionaria dell’Immacolata che opera nel Paese asiatico da quindici anni. Felice della sua vita, immersa in tante storie intense e spesso difficili, convinta della propria scelta che la porta ogni giorno a testimoniare la sua fede e a confrontarsi con chi ne professa un’altra. Ma il cammino per arrivare qui non è stato tutto in discesa.
Negli anni Ottanta, Annamaria era una normale ragazza milanese di famiglia cattolica, che dopo aver frequentato l’istituto superiore per interpreti e traduttori si era sistemata nell’ufficio commerciale di un’azienda che vendeva abbigliamento in tutta Europa. «A quel tempo non frequentavo la parrocchia», racconta oggi la religiosa, che in Bangladesh è anche consigliera provinciale della congregazione. «Un’estate, un’amica mi invitò a trascorrere una settimana in Sicilia con alcuni ragazzi della Fuci, la Federazione universitaria legata all’Azione Cattolica. Mi trovai benissimo con quei giovani: ammiravo il loro modo di stare insieme, preoccuparsi degli altri… E notai che pregavano senza che fosse il sacerdote a esortarli».
Al ritorno, Annamaria cominciò a frequentare l’Azione Cattolica: «Incontrai vari sacerdoti e iniziai un cammino di fede». Fu così che, un giorno, due ragazze della parrocchia la invitarono al Pime – «c’erano le “Domeniche missionarie”», ricorda – e quella giovane che aveva sempre amato viaggiare, curiosa di «conoscere il diverso», capì che quell’ambiente faceva per lei. In effetti, non lo avrebbe più abbandonato, ma ancora non lo sapeva.
Capitò in quel periodo, un imprevisto sul lavoro, Annamaria fu trattata in modo scorretto dalla dirigenza e realizzò che stava sprecando energie per qualcosa di effimero, in cui non credeva. «Andai da un padre del Pime e gli dissi: “Aiutami a cercare un lavoro nel campo sociale!”. Ma lui mi rispose: “Forse il tuo problema non è la professione, ma la vocazione”. Avevo 25 anni». Sebbene la giovane fosse convinta che nel suo futuro ci fossero un uomo e una famiglia, accettò un cammino di discernimento e, alla fine del secondo anno, decise di fare un’esperienza in missione: «Con un’altra ragazza fummo mandate a Mumbai, nel lebbrosario delle suore dell’Immacolata, e fu un’esperienza bellissima. Quello che non mi convinceva delle religiose, in Italia, era che rimanessero in convento, che fosse la gente a dover andare da loro e non viceversa. Pensavo: se Gesù è morto anche per chi è lontano da Lui, bisogna annunciarlo! E lì, in India, vedevo le missionarie che andavano dalle persone, mostrando loro che Gesù le amava. Una sera, parlando con la mia compagna di viaggio, dissi: “Io una vita così la farei!”. Lei mi diceva che no, che voleva una famiglia, e io mi sorpresi a risponderle con argomentazioni che non mi sarei mai aspettata da me… Eppure ero sincera».
Tornata in Italia, Annamaria ne parlò con il suo direttore spirituale. «Quello che seguì fu un anno terribile. Piangevo molto, perché sapevo che dovevo scegliere e non volevo, non ero certa di ciò che il Signore mi chiedesse». Finché, durante una visita al santuario di Fatima, arrivò la decisione. Immediata: «Sarei diventata una missionaria dell’Immacolata».
Non fu semplice dirlo ai genitori, contrari alla scelta – «sostenevano che non avevo il carattere giusto per obbedire!» – ma nel 1992 Annamaria entrava nella comunità. Nel ’96 la prima professione e, nel 2002, quella perpetua. Dopo due anni a Pozzuoli, arrivò finalmente il momento della partenza. Destinazione: Bangladesh. Il primo impatto con il Paese fu uno shock: «Tantissima gente, colori sgargianti, odori forti e io mi sentivo piccola, un niente!». Per spiegarsi, la religiosa racconta un aneddoto: «Poche settimane dopo il mio arrivo a Dhaka, dove sarei rimasta il primo anno per imparare la lingua, partecipai alla celebrazione delle Ceneri. Alle centinaia di fedeli che riempivano la chiesa fu tracciata sulla fronte, con la cenere, una vistosa croce. Ma finita la Messa e lasciata la parrocchia, mi bastarono pochi minuti per trovarmi in mezzo a uno svincolo pieno di gente, in cui non riuscivo più a ritrovare nemmeno una delle persone segnate con quella grossa croce… Nella folla ti perdi, come il sale nell’acqua, che c’è ma non si distingue. Così mi si presentò il Bangladesh: tanta gente, pochi cristiani e tu che sei diverso, perché sei bianco».
Pian piano, tuttavia, suor Annamaria cominciò a scalfire la superficie di quella società per lei così nuova. Lo fece prima attraverso i sei mesi di impegno pastorale con le famiglie a Bonpara, nel distretto nord-occidentale di Natore, una delle più antiche comunità cristiane del Paese, e poi soprattutto a Khulna, la terza città del Bangladesh, dove, 130 km a sud-ovest della capitale, sorge l’ospedale specializzato per la cura della lebbra e della tubercolosi gestito dalle suore dell’Immacolata. «Fui scelta come responsabile di uno staff costituito da giovani cristiani, musulmani e indù: il mio ruolo di riferimento mi permise di avvicinarli ed entrare nel loro mondo. Conoscevo le famiglie, venivo invitata a matrimoni e momenti di festa… Qualcuno mi diceva: “Sister, abbiamo trovato una nuova mamma”».
Dopo due anni e mezzo intensi, in cui lavorò anche nella pastorale giovanile diocesana, la religiosa milanese si spostò nel piccolo, povero villaggio di Muladuli. «Lì, con fatica, ho intessuto relazioni bellissime», racconta. «La pastorale non era ancora organizzata. Lavoravo per formare un gruppo di giovani donne, intanto andavo nelle vie del paese a cercare i ragazzi che non venivano in chiesa, mi fermavo a parlare davanti a casa loro».
“Incontro” è una delle parole chiave ricorrenti nei racconti della suora. Insieme a “giovani”. Non a caso, ormai da nove anni, a Dhaka è impegnata nel programma Samuel, ideato da padre Franco Cagnasso per i ragazzi di quarta e quinta superiore: «Si tratta di incontri vocazionali frequentati dagli ospiti degli ostelli cristiani della capitale, che provengono da tutto il Bangladesh e che, in queste occasioni, hanno anche modo di incontrarsi tra loro senza sentirsi, come sempre accade, minoranza».
L’itinerario, aperto a un’ottantina tra ragazzi e ragazze insieme – dettaglio insolito in una società musulmana -, propone otto incontri annuali che, con l’aiuto di tre suore di altre congregazioni e dei seminaristi del Pime, offrono alcuni strumenti essenziali, dalla lettura della Bibbia al servizio ai bisognosi, per «scoprire la presenza del Signore nella propria vita e comprendere che per ciascuno esiste un progetto da realizzare». Il programma, di cui suor Annamaria è attualmente responsabile, include una giornata di visita in contesti dove i cristiani danno una testimonianza forte nell’ottica del miglioramento della società: cura dei tossicodipendenti, accoglienza ai disabili, dialogo… C’è poi modo, sempre con l’aiuto di testimoni, per presentare le vocazioni specifiche: matrimonio, sacerdozio, consacrazione missionaria.
«I ragazzi sono molto contenti di questa esperienza: la loro fede matura e incontrano persone che poi restano punti di riferimento importanti per la loro vita».
Particolarmente preziosi in un contesto che ai più giovani pone sfide quotidiane complicate: «Quella principale riguarda il lavoro», racconta la missionaria. «Oggi sono in molti a proseguire gli studi e a voler abbandonare i campi. Ma quali sono le alternative? Tantissimi si riversano a Dhaka per impiegarsi nelle fabbriche, ma si tratta di una vita durissima, in alloggi che sono buchi condivisi con altri, senza il sostegno che nonostante tutto il villaggio offre, per paghe basse e senza prospettive di una situazione stabile». D’altra parte, il lavoro qualificato non è sufficiente per tutti: «La popolazione è giovanissima e il Paese, che ha 160 milioni di abitanti, nonostante i progressi è ancora in cammino verso lo sviluppo. Ecco perché l’aspirazione più diffusa è quella di emigrare».
In questo contesto difficile, c’è chi cede alle lusinghe del fondamentalismo? «L’estremismo è aumentato», ammette suor Annamaria. «Anche il semplice colpo d’occhio è cambiato: se quando sono arrivata la maggior parte delle donne vestiva col sari, oggi i due terzi girano in burqa. E, durante i sermoni del venerdì diffusi dalle moschee con gli altoparlanti, i cristiani sono definiti “infedeli”, “senza Dio”… Alla base, la gente è abituata al pluralismo, per esempio in caso di lutto si partecipa alle rispettive cerimonie religiose. Ma è un’attitudine da coltivare e da approfondire».
Serve a questo il gruppo ecumenico e interreligioso Shalom, portato avanti con padre Francesco Rapacioli: «Organizziamo incontri e iniziative insieme a indù, musulmani o protestanti, per promuovere la conoscenza e la stima reciproca». Perché «comprendere che l’altro è una persona che vale è il miglior modo per imparare a rispettarlo».