Per il 18 agosto è attesa la sentenza del Tribunale internazionale per il Libano sulla strage in cui nel febbraio 2005 fu ucciso l’allora primo ministro. Con quattro miliziani di Hezbollah sul banco degli imputati. La posta in gioco di una settimana decisiva per il Libano che fa i conti con le ferite che la gigantesca esplosione del 4 agosto ha reso ancora più profonde
Quanto sa parlarci oggi la tragedia di Beirut? Possiamo trovarvi una storia che ci coinvolga in tutta la storia? La possiamo trovare tra le migliaia di palazzi non più agibili di Beirut. Tanti libanesi sfollati, all’improvviso, ma anche tanti approfittatori, che cercando di comprare per pochi spicci vogliono approfittarsi dell’improvvisa condizione di indigenza di tanti. Questa storia potrebbe spiegare anche le contemporanee visite di tanti leader stranieri tra di loro inconciliabili: “stanno tentando di cucinare un nuovo Libano nel retro delle cucine”, ha detto il patriarca maronita, Bechara Rahi, “nell’interesse di clan e fazioni.” E’ probabilmente la sua traduzione dell’appello di Papa Francesco a stare al fianco di chi soffre, e tanto, non del lusso. Ma quell’appello ci parla di fratellanza e queste storie, in questi e nei prossimi giorni, troveranno in un’altra storia il linguaggio che davvero le potrebbe spiegare come vitali per tutto il Mediterraneo: è la storia dalla quale dipendono, quella dell’ex primo ministro libanese Rafiq Hariri e del suo assassinio.
Hariri fu ucciso insieme alle 22 persone che viaggiavano con lui sul lungomare di Beirut, proprio a due passi dal porto ridotto in polvere pochi giorni fa. Era il 14 febbraio del 2005 e per il 18 agosto, quindici anni dopo, il Tribunale Internazionale per Libano ha annunciato la sua sentenza. Sul banco degli imputati ci sono quattro miliziani latitanti, di Hezbollah, il Partito di Dio di orientamento khomeinista che oggi è considerato il dominus del governo dimissionario, per la cui sostituzione ancora non sono state avviate neanche le consultazioni. Beirut era stata distrutta dalla guerra civile, conclusasi dopo tre lustri, nel 1990. Quando Hariri cominciò a perseguire il progetto di ricostruire Beirut, da molti poi duramente criticato, Giovanni Paolo II convocò il sinodo per il Libano. Nel messaggio ai libanesi di quel 1991 ci sono tre frasi cruciali. L’obiettivo, “un’autentica purificazione dei cuori”, già annunciava quanto si espliciterà nel documento preparatorio dei vescovi, dove scrissero che la Chiesa ha visto con dolore i suoi figli essere uccisi, uccidere e uccidersi tra di loro. Per arrivare a questa purificazione Giovanni Paolo II sceglieva di aprire le porte del sinodo: “ esprimo la mia fervida speranza e la mia fiducia nell’aiuto delle altre Chiese cristiane in Libano.” Ma l’invito non voleva riguardare solo loro: “ Vorrei infine rivolgermi a tutti i Libanesi di fede islamica, i cui responsabili religiosi hanno già voluto esprimere la loro soddisfazione per il desiderio dei loro concittadini cattolici di intraprendere il cammino del sinodo. Confido che essi continueranno a sostenerli con il loro incoraggiamento e vedranno in questo evento una realtà che arricchirà tutta la società libanese e la aiuterà a superare gli ostacoli e le incomprensioni create dalla violenza e dalla guerra.”
Che cosa voleva dire Giovanni Paolo iI? Questo passaggio tra incoraggiamento presente e visione auspicata sottintendeva qualcosa? Secondo Mohammad Sammak, uno dei più autorevoli esponenti dell’Islam illuminato e al tempo stretto consigliere di Rafiq Hariri, quando il Vaticano estese a personalità dell’Islam libanese l’invito a partecipare ai lavori sinodali la loro reazione fu lieta ma sorpresa, nella sostanza “ringraziamo di cuore ma come potremmo? Non siamo cristiani…”. Fu allora che Rafiq Hariri disse a Sammak che quello sarebbe stato un errore epocale. Occorreva fare di tutto perché l’invito fosse capito e quindi accolto. Il loro lavoro di “moral suasion” ebbe successo e lo stesso Sammak fu tra i partecipanti a quel sinodo, e ricorda che ci fu la possibilità di commentare le proposte sinodali prima della loro definitiva formulazione.
Che visione c’era in Hariri? La stessa che c’era nel suo progetto di ricostruire Beirut. Il Libano esiste se è plurale, ma le sue montagne, le sue antiche città, hanno parlato in prevalenza di identità confessionale. Beirut invece è un’opera collettiva, un’impresa comune e condivisa da tutte le comunità. Lo testimoniano documenti scritti e congiunti dell’epoca ottomana. La stessa cintura della miseria, in prevalenza sciita, esprimeva poi la richiesta e la necessità di associarli realmente a questa realtà. E infatti il centro della Beirut ricostruita è diventato presto il luogo di tutti, ovviamente anche degli sciiti. E’ questo luogo che Hariri aveva ricostruito ed esteso; questo luogo poteva avere senso sociale solo con la piena comprensione dell’invito al sinodo. Il delitto Hariri né oggi né allora è stato un fatto soltanto settario, ma culturale. Infatti dopo di lui la stessa mano ha ucciso per le strade di Beirut intellettuali e politici soprattutto cristiani. A una visione che imponeva uno scontro tra Oriente e Occidente loro opponevano la neutralità di Beirut, città fieramente araba ed europeizzata, cioè mediterranea.
Dunque la neutralità ha il coraggio di rifiutare lo scontro di civiltà. Questa neutralità può costare la vita. Sa, come disse ricevendo la più onorificenza francese, la Legion d’Onore, il maronita Samir Frangie, che “cristiani e musulmani libanesi sono una straordinaria chance gli uni per gli altri. Per i cristiani, l’Islam è un bastione inespugnabile contro il relativismo mortale venuto dall’Occidente; per i musulmani, i cristiani sono la porta aperta alla ragione critica che permetterà loro di riannodare i legami con un glorioso passato”. Ma se sa questo sa anche che ogni discorso politico trionfalista iscrivendo le comunità in un rapporto di rivalità e non di cooperazione avrebbe minato la prospettiva del vivere insieme. Per questo la neutralità richiede coraggio, e per questo la guerra civile libanese non è mai finita contro di loro, da parte dei trionfalisti, in una sorta di guerra civile combattuta sì, ma con un solo fucile.
Il centro di Beirut è stato la successiva, logica vittima di questo proseguimento della guerra civile libanese, cominciato con l’assassinio di Hariri e proseguito con l’eliminazione di tanti leader cristiani. Quando, per scelte politiche dell’esecutivo, Hezbollah cinse d’assedio il palazzo del primo ministro, nei fatti cinse d’assedio il centro di Beirut, i luoghi di ritrovo che lì in centro univano tutti e che per via dell’assedio chiusero. Quel centro era il senso di quella neutralità di cui oggi si torna a discutere. Nell’Islam popolare del Levante la visione di Hariri c’è sempre stata, e c’è. Considerare i monoteismi parte integrante della civiltà del Levante vuol dire considerare la propria civiltà composta da ogni identità. E’ quanto traspare dalla stessa esortazione apostolica post-sinodale firmata a Beirut da Giovanni Paolo II il 10 maggio 1997: “I monaci saranno, come lo erano in passato, guide e maestri spirituali, e i loro monasteri luoghi di incontri ecumenici ed inter-religiosi.” I fondamentalisti invece, ha scritto Paolo Dall’Oglio, credono che esistano false credenze, e quindi una falsa umanità.
La neutralità enunciata un mese fa il patriarca tornerà a spiegarla dalla sua sede patriarcale proprio alla vigilia della sentenza Hariri. Non si tratta di un “aderire né sabotare”; al contrario, è un non piegarsi, contrapponendosi a tutti gli estremismi escludenti. E’ per questo che il patriarca e il presidente della Repubblica – il maronita Aoun – sembra non si capiscano più. La visione che prevarrà a Beirut non determinerà solo il futuro del Libano: la sfida in realtà è riaprire il Mediterraneo.
Quindici anni dopo la morte di Hariri, Beirut è di nuovo in macerie, e questo nei prossimi giorni imporrà di riflettere sui prodotti di due culture: quella che aveva ricostruito Beirut e quella che ha devastato il Levante, da Mosul ad Aleppo tornando poi a distruggere Beirut. Non sono culture associabili a comunità, ma ad una visione, che riecheggia nell’improvviso ritorno all’invocazione del nemico esterno, ancora irrinunciabile per ogni trionfalismo, anche se al porto commerciale si custodivano da anni tonnellate di materiale esplosivo senza sapere perché.