Per la prima volta Pechino dichiara l’acquisizione di un’intera infrastruttura strategica di un Paese. Salto di qualità della “nuova via della seta” che suscita preoccupazioni sulle conseguenze sulla sovranità delle aree interessate
La Cina ha rotto gli indugi e ha dichiarato apertamente l’acquisizione di una infrastruttura strategica in un Paese straniero. Un’iniziativa che per molti sottolinea il rischio implicito in una eccessiva esposizione agli interessi cinesi, per altri la cecità di un governo che ha permesso che Pechino diventasse il suo maggior creditore.
Il Laos, Paese senza accesso al mare, con una popolazione di 7 milioni di abitanti tra le più povere dell’Asia per le scelte ideologiche della sua leadership e – fino a alcuni anni fa – per il suo isolamento, si trova da tempo sottoposto alle pressioni dei più forti vicini (Repubblica popolare cinese, Thailandia e Vietnam) per concedere loro parti sempre più ampie delle sue ricche risorse naturali e con esse della sua sovranità. Cadendo così in quella “diplomazia della trappola del debito” che i detrattori vedono come elemento essenziale dell’iniziativa sponsorizzata da Pechino della “Belt and Road Initiative”, ribattezzata “nuova Via della Seta”. Un grandioso progetto in tre continenti che mira ad acquisire o controllare risorse essenziali, consentire nuove opportunità alla propria forza-lavoro e alle proprie imprese, e ad acquisire un vantaggio strategico a livello regionale e globale.
L’accordo firmato l’8 settembre tra il gestore elettrico nazionale Électricité du Laos e l’azienda energetica statale China Southern Power Grid Co., di cui ha dato notizia con pochi altri dettagli l’agenzia d’informazione cinese Xinhua, secondo osservatori neutrali consegna a Pechino la produzione elettrica del Paese, anche se consentirà di meglio negoziare sul piano del costo l’energia ceduta ad altri vicini. Significativo, anche se unico e mirato probabilmente a contrastare le preoccupazioni internazionali, l’intervento dell’ambasciata cinese a Vientiane che ha segnalato la possibilità da parte laotiana di riacquistare nel tempo almeno parte delle quote cedute all’azienda cinese.
La volontà laotiana di conservare le risorse forestali e minerarie a scapito di un intenso sfruttamento dei suoi corsi d’acqua, a partire dal tratto del Mekong che scorre nel suo territorio, e di puntare ad essere “la batteria dell’Asia” ha dovuto confrontarsi con gli interessi cinesi e infine allinearsi ad essi, anche per i forti investimenti necessari.
Con conseguenze però sulla piena sovranità di ampie aree interessate da dighe, invasi e centrali affidati ad aziende e maestranze cinesi, ma anche sull’ecosistema fluviale e sulle finanze nazionali. I crediti concessi da Pechino e gli investimenti congiunti nei settori idroelettrico e ferroviario hanno portato a un forte indebitamento che per quanto riguarda il partner cinese equivale per quest’anno a 900 milioni di dollari, ovvero a quello che la Banca Mondiale ha stimato essere il 68 per cento del Prodotto interno lordo nel 2020 (era stato il 59 per cento lo scorso anno) e al 90 per cento delle riserve di valuta straniera. Una situazione che, nonostante i pochi casi registrati e nessun decesso attribuito al Covid-19, è stata aggravata dalla pandemia che ha quasi azzerato il turismo e ridotto sensibilmente le rimesse dall’estero, ma che comunque – secondo le agenzie di rating internazionali – apre a una situazione di default “nel breve termine” se non interverranno forti fattori di riequilibrio.
Foto: una diga in Laos Wikipedia / Laurence McGrath