È morto a 68 anni il francescano messicano, vicario apostolico di Istanbul. Dalla fondazione della Fraternità interreligiosa dei frati minori fino al suo ruolo di pastore, aveva sempre mantenuto il suo stile di rispetto e calore umano. Con un’attenzione speciale agli ultimi
«Cosa ci facciamo qui a Istanbul? Stiamo in mezzo alla gente e instauriamo un dialogo, in tutte le forme. A cominciare dalla preghiera». Con queste semplici parole e l’immancabile sorriso di chi non si prende troppo sul serio, durante il nostro primo incontro, ormai dieci anni fa, fra Rubén Tierrablanca mi raccontava il senso della presenza dei frati minori nel cuore della metropoli turca.
L’attuale vicario apostolico per i cattolici di rito latino, portato via dal Covid la sera del 22 dicembre in un ospedale di quella che ormai da tanti anni era la sua città, a quei tempi era ancora il guardiano del convento e della Fraternità internazionale per il dialogo ecumenico e interreligioso nata nel 2003 nella parrocchia di Santa Maria in Draperis, una piccola oasi di pace proprio su Istiklal Caddesi, la via più commerciale e caotica di Istanbul.
Una «fraternità contemplativa in missione», come lui la definiva, che negli anni ha creato relazioni con le diverse confessioni cristiane presenti storicamente in Turchia (greco-ortodossa, armena, siriaca…), con la Chiesa protestante nelle sue diverse denominazioni, con il variegato mondo musulmano, a cominciare dai “vicini di casa”, i sufi Mevlevi, la cui comunità sorgeva sulla stessa via del quartiere di Beyoğlu.
Lì, dove la musica ad alto volume dei locali e il vociare dei passanti arrivava attraverso le finestre fino a notte fonda, conobbi questa manciata di frati provenienti letteralmente dai quattro angoli del mondo: Argentina, Corea, Francia, Congo… Fra Rubén veniva dal Messico (era nato a Cortazar il 24 agosto 1952), anche se aveva trascorso tanti anni a Roma, dove era stato anche rettore dell’Università Antonianum dal 1992 al 1997: di quel periodo mi raccontava con nostalgia i momenti conviviali con gli studenti, in cui non mancava di imbracciare la chitarra per un coro improvvisato.
Era così, fra Rubén: gioviale e affabile, anche se sempre autorevole e deciso, oltre che dotato di una profonda e genuina spiritualità. Forse per queste sue doti Papa Francesco lo scelse nel 2016 per diventare il nuovo vicario apostolico di Istanbul, ruolo ricoperto per 24 anni dal francese mons. Louis Pelatre, di cui Tierrablanca era stato vicario generale. Conosceva bene, dunque, le difficoltà della piccola Chiesa di Turchia, minoritaria e priva di riconoscimento giuridico.
Nonostante le sfide, il frate messicano non si era tirato indietro e in questi anni ha accompagnato con calore il suo gregge, sempre più multietnico: i riti pasquali o la Messa nella notte di Natale da lui presieduti nella cattedrale di St. Esprit erano la celebrazione della pluralità. Filippini, africani subsahariani, cattolici locali spesso con origini europee affollavano la chiesa e il cortile antistante, dove monsignor Tierrablanca non mancava mai di uscire per una stretta di mano, una benedizione – ma pure un selfie con i fedeli che glielo chiedevano.
Con la stessa spontaneità, il vescovo francescano curava rapporti di amicizia e di prossimità spirituale con il patriarca ecumenico Bartolomeo, con il Patriarcato armeno, con la Metropolia dei siro-ortodossi, così come con la piccola comunità ebrea e, va da sé, quella musulmana. Naturale, per lui che con i confratelli di Santa Maria in Draperis aveva creato la consuetudine delle preghiere comuni con i dervisci, in cui le invocazioni cristiane si alternavano alla tradizionale danza estatica sufi. Amava il popolo turco. «È gente accogliente, io qui sto benissimo», mi diceva, anche se era ben conscio delle criticità che caratterizzano il Paese.
Da vicario e poi anche da presidente della Conferenza episcopale non dimenticava mai i più bisognosi, a cominciare dai tantissimi rifugiati fuggiti dal conflitto siriano: innumerevoli le iniziative di assistenza promosse anche attraverso la locale Caritas, intensificatesi negli ultimi mesi di fronte all’emergenza pandemica che aveva aggravato drasticamente le condizioni di vita delle fasce più vulnerabili di popolazione. Ora che proprio il Covid se l’è portato via, monsignor Tierrablanca – ancora fra Rubén per molti suoi fedeli – mancherà terribilmente a tanti. Non solo in Turchia. Ma soprattutto lì, dove ormai rappresentava una presenza familiare, solida, affidabile. Che sarà difficile, ora, sostituire.
Ai tempi della Fraternità di Istiklal Caddesi, mi aveva confidato di amare recarsi, di tanto in tanto, a pregare nella moschea Yeni Cami, nella zona del porto di Eminönü: «È molto simile alla nostra chiesa di Santa Maria», sosteneva. «Come qui abbiamo un’oasi di pace e spiritualità a due passi da una via caotica e rumorosa, così laggiù, tra i venditori ambulanti e la folla che rende difficile persino camminare, sorge questo luogo in cui basta mettere piede per ritrovarsi immersi in un’atmosfera di raccoglimento, silenzio e preghiera». E parlare con Dio: ognuno con le proprie parole, ma insieme.
A-Dio, fra Rubén. E grazie.