Perché la rabbia popolare è tornata a infiammare così tanti Paesi dell’America Latina? L’analisi di Lucia Capuzzi nel suo nuovo libro al centro dell’incontro in streaming del 27 gennaio per i “Mercoledì del Pime”
Da Haiti al Venezuela, dal Nicaragua alla Bolivia, negli ultimi mesi le piazze dell’America Latina sono state scosse da un’ondata di proteste. A questo fenomeno Lucia Capuzzi, giornalista di Avvenire, dedica il libro “Un Continente in rivolta. L’America Latina tra proteste e speranza” (Vita e Pensiero, pagine 176, euro 14) da cui pubblichiamo questo brano.
Latinoamérica en llamas, America Latina in fiamme. Era il 2010 quando il poeta messicano Francisco Azuela, nipote di Mario, grande narratore della Rivoluzione del 1910, diede questo titolo alla sua nuova raccolta. Un omaggio al turbolento Novecento regionale e alle gesta dei suoi eroi in basco e mimetica, pensarono in tanti. La critica parlò di “provocazione letteraria”. «La ferita cresce di fronte allo specchio della sera, non posso celebrare sessant’anni di vita nell’odore di morte, rifugiato nel silenzio di questo giorno doloroso. Piango le speranze rotte, l’animale apre le fauci dilaniando cuori e canti alla vita con il suo passo lento e sinuoso», scriveva Azuela proprio nel momento di massima effervescenza latinoamericana. Il Continente era nel pieno di un ciclo di exploit economico, stabilità politica, entusiasmo per il futuro. L’apice del «decennio latinoamericano», lo consacrò «The Economist».
Eppure, ancora una volta, la letteratura si era dimostrata capace di cogliere l’autentico sentire di quello sconfinato spazio compreso tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco. In cui, dietro la patina luccicante della fiesta, covava il fuoco di un crescente malcontento. Nove anni dopo l’incendio è scoppiato, bruciando, nell’arco di dodici mesi, nove su venti Paesi dell’area, oltre all’isola di Portorico, latina per geografi a e cultura, eppure Stato associato di Washington. Un record nel pur movimentato scenario globale.
A che cosa si deve questa “rivoluzione latina”? E la categoria esiste davvero, dato che, in ciascun Paese, gli scoppi di rabbia popolare sono stati determinati da cause tutte differenti fra loro? Di certo, al di là delle specificità dei singoli contesti, esistono trame di lungo periodo che intessono la storia continentale.
L’autunno dello scontento latinoamericano è giunto al termine del lungo triennio elettorale 2017-2019, in cui si sono susseguite quindici consultazioni presidenziali. Il risultato è stato uno scenario molto più frammentato rispetto al passato. Come tendenza generale, ha prevalso il “voto di castigo” contro la maggioranza al potere, di qualunque colore fosse.
Ai vertici, dunque, attualmente risulta insediata una pluralità di leader di differente orientamento, nonché stile politico, in grado di coprire tutto lo spettro di opzioni. Nel momento in cui scrivo, in Venezuela, governa la sinistra autoritaria di Nicolás Maduro; in Messico e in Argentina quella democraticopopulisteggiante di Andrés Manuel López Obrador e Alberto Fernández; in Costa Rica, Panama e Ecuador, il centrosinistra di Carlos Alvarado, Nito Cortizo e Lenín Moreno; in Brasile l’ultradestra di Jair Bolsonaro; in Colombia, Guatemala, Honduras, Paraguay, la destra di Iván Duque, Alejandro Giammattei, Juan Orlando Hernández, Mario Abdo Benítez; in Cile, El Salvador e Uruguay, il centrodestra di Sebastián Piñera, Nayib Bukele e Luis Lacalle Pou.
Molti dei leader citati possono contare su uno scarso appoggio parlamentare. Fatto che non solo impedisce la realizzazione di programmi di ampio respiro, ma favorisce il proliferare di “conflitti istituzionali”. Agli occhi dei cittadini si rafforza, dunque, l’idea che i governi agiscano nell’interesse di una casta minoritaria, come pongono in luce le ultime inchieste di Latinobarómetro, un progetto pionieristico, nato nel 1995, per approfondire le opinioni dei cittadini del Continente. I suoi dati sottolineano uno scontento generalizzato almeno dal 2015. L’attuale esplosione sociale è frutto di decenni di richieste ignorate da parte delle élite che ora pagano il prezzo del disinteresse. È un fenomeno continentale.
Secondo Latinobarómetro, dietro gli slogan della protesta, fra loro diversi, «emerge la stessa domanda di maggiore democrazia. Ovvero che questa funzioni per tutti e non solo per una minoranza privilegiata. Il 70% dei latinoamericani ritiene che si governi solo nell’interesse di quest’ultima. E il 45% si sente discriminato. Sono queste persone le protagoniste della rivolta». In particolare i più giovani: i millennials, nati dopo il 1980, sono i più attivi. In base allo stesso sondaggio, i partiti sono le istituzioni democratiche meno affidabili, con un misero 13% di consenso. Non a caso, le formazioni tradizionali dell’opposizione non hanno trovato posto nelle piazze. Ottantotto milioni di latinoamericani registrati per votare non si sono presentati alle urne negli ultimi cinque anni.
Ovunque, l’incendio globale ha messo in luce la fine di un’epoca – quella delle difficili democratizzazioni – e, soprattutto, l’esaurimento di un modello, basato sull’esportazione di materie prime. Rispetto agli anni Ottanta, i passi avanti sono innegabili. Il Continente ha costruito sistemi istituzionali basati sull’alternanza, ha messo in ordine i principali indicatori macroeconomici e, grazie al boom dei prezzi delle materie prime dei primi anni Duemila, ha attuato strategie nazionali per ridurre, almeno un po’, la feroce diseguaglianza. È rimasto, però, prigioniero di quella che gli esperti chiamano la “trappola del reddito medio”. Ovvero non ha completato la transizione verso un sistema produttivo differenziato e ad alto valore aggiunto, in grado di soddisfare le legittime aspirazioni, in termini di lavoro e servizi, di quanti sono usciti dalla povertà grazie alle politiche redistributive di inizio secolo. Procrastinando, così, all’infinito la promessa di far entrare questi ultimi a pieno titolo nella classe media.
La politologa spagnola Anna Ayuso lo definisce «dramma delle aspettative frustrate»: quando i poveri smettono di esserlo, non vogliono riprecipitare nella miseria; hanno altre aspirazioni e si sentono ingannati dal sistema. Da qui il malcontento latente, che ha trasformato rivendicazioni banali – emblematico il citato caso cileno dell’aumento di quattro centesimi del biglietto della metropolitana – in rivolte anti-establishment.
A QUESTO TEMA DEDICHEREMO L’APPUNTAMENTO IN STREAMING MERCOLEDI’ 27 GENNAIO. CLICCA SULL’IMMAGINE QUI SOTTO PER SEGUIRE LA DIRETTA