La testimonianza di un operatore umanitario da Yangon: «Gli amici che scendono in piazza a manifestare mi dicono: “Non possiamo tornare indietro, siamo pronti a morire per i nostri figli”. Ma quante responsabilità internazionali per la debolezza in cui il Paese si trova ad affrontare questa prova»
Pubblichiamo una testimonianza di un operatore umanitario giuntaci da Yangon che racconta la situazione nel Paese a due settimane ormai dalla presa del potere da parte dei militari a cui in migliaia di persone da giorni stanno rispondendo scendendo in piazza in tutto il Myanmar.
Carissimi,
sono tanti i sentimenti che ho vissuto assieme ai miei compagni in queste due settimane. Mi permetto di parlarne stasera in queste righe. Credo che quanto stiamo vivendo meriti del tempo, meriti una riflessione. Mi permetto di condividere questi pensieri, tutti personali. Non credo succederà spesso.
Non è la prima volta che assistito ad un colpo di stato. Nel lontano 1992 a Bangkok, nel primo anno di lavoro, così come nel 2005, sempre in Thailandia. Ma vedevo che era una lotta fra forze che già erano al potere. Mai mi avevano preoccupato, così come mai sono stati causa di preoccupazione grande per il popolo; tranne l’ultimo, quando l’istituzione del re è cominciata a declinare. Ma qui è altro. Un popolo che fino al 2008-2010 ha vissuto nella paura, sotto un regime tremendo. Solo in questi ultimi anni, ed in particolare dal 2015, con le grandi elezioni libere, questi popoli hanno cominciato a respirare e capire che potevano essere loro gli artefici del loro progresso e del loro futuro.
Ma non voglio fare filosofie. Vi racconto le cose che ho viste ed udite. Ed i miei compagni più di me che escono in mezzo alla gente più di me. Vi posso dire che questa situazione ha buttato tutto il Paese in un grande turbamento. Tutta la gente si è trovata quasi improvvisamente ad andare indietro di 15 anni. La nostra Daw Mary, che ci prepara da mangiare e ci aiuta nella pulizia della casa, ne parlava già, come faceva a suo tempo, sottovoce: non si può parlare apertamente di queste cose, perché non sai mai chi ti può ascoltare.
Mentre scrivo è appena terminato il concerto delle otto di sera: venti minuti di sbattimenti di tegami con una partecipazione corale eccezionale da tutte le case ed appartamenti, piazzati alle finestre sbattendo tegami, coperchi, ferri … per far sentire che c’è un sentire comune. In tutta la città ed in tutte le città. E questo sentire comune lo si è visto in questi giorni di manifestazioni, non lontano da qui. Un crescendo eccezionale. Lunedì scorso poi in tutto il Paese si sono rincorse manifestazioni, senza il colore di partiti, per dire che tutti si è uniti in questa richiesta di libertà.
Manifestazioni ordinatissime: dalle 10 alle 4 del pomeriggio e poi a casa. Alla 8 di sera c’è il coprifuoco. Triste ritorno a tempi passati.
Devo dire che la dignità e il modo di atteggiarsi è grande. C’è un grande senso di solidarietà: gente che offre acqua ai partecipanti, ci sono luoghi dove si distribuisce cibo; ragazzi che raccolgono le immondizie dopo che sono passati i cortei; camion di banane distribuite ai partecipanti ed a chiunque passi nelle vicinanze.
Due giorni fa mi è capitato di andare in ambasciata dove alcuni concittadini erano stati convocati per un po’ di coordinamento. Mi sono recato in bici, in auto non ci sarei mai arrivato; ed è stato un continuo passare fra tanti giovani, tantissimi, e fra chi faceva da supporto offrendo a loro, e a me, l’acqua oppure una confezione di riso da mangiare, oppure qualche dolce tipico … Ero partito con un po’ di paura e sono rientrato carico dell’entusiasmo di questi giovani, senza paura. I cinesi di fronte casa, un po’ freddi e presi sempre dal lavoro, l’altro giorno si sono sciolti offrendo a decine e decine di giovani che qui passavano per andare alla manifestazione, confezioni preparate di riso, ma in gran quantità… Taxi che riportano la gente a casa gratis; poliziotti che coordinano il traffico con grande empatia con quanti partecipano alla manifestazione …
Anche lo staff che lavora con me, qui a Yangon ed a Taunggyi, ha partecipato alle manifestazioni: non possiamo tornare indietro, mi diceva la mia capo-progetti, io so che cosa vuol dire. Lei figlia di un catechista di una città del delta, sa bene che cosa ha significato la dittatura del passato. La capo-progetti di Taunggyi mi diceva che “non vogliamo questo per i nostri figli”. L’altro giorno la fisioterapista che lavora con noi, anche lei con una bambina di due anni, mi ripeteva la stessa cosa: siamo pronti a morire, ma non possiamo tornare indietro. Moriamo per i nostri figli.
Ascoltavo estasiato per tanta forza, ma anche con tanta vergogna dentro. Penso ai nostri giovani spesso senza “un dove andare”, senza un senso …; penso alla nostra piccola Europa sempre più piccola e sempre più vecchia, incapace di capire e di aprire orizzonti per cui valga la spesa vivere e morire, impegnata in ben altre agende …
Penso che quanto successo è avvenuto in un momento di grande debolezza per questo Paese e per la sua leader. Debolezza per i dieci mesi di Covid-19 che davvero hanno consumato quelle forze che il Paese aveva un po’ recuperato negli ultimi anni. Ma debolezza anche a causa di una congiura internazionale che negli ultimi mesi ha debilitato l’immagine stessa della “Signora”, fino anche a toglierle riconoscimenti e cose del genere. Non sono un politologo e quanto scrivo è solo un mio parere da badilante, ma mi pare che la superficialità dimostrata in particolare da alcuni paesi europei nel dare giudizi, è stata grande; senza calcolare che se in Italia si è vissuto il “ventennio”, qui ce ne sono stati tre di “ventenni” consecutivamente; in una popolazione con 135 etnie riconosciute, con lingue, culture …. completamente diverse. Superficialità e forse anche arroganza, mi pare sono due aspetti presenti nella nostra Europa fatta più di “burocrati” che di popoli. Una Europa che si vergogna della sua storia.
Ho visto giovani senza paura, vogliosi di vivere in libertà. Lo stile delle loro dimostrazioni sono mille anni distanti dai nostri “black-block”: figli nostri che coltiviamo ed addestriamo, e nei momenti giusti li facciamo uscire per … mostrare che c’è rabbia nel cuore della gente … Anche qui c’è tanta rabbia, una rabbia che invece fa nascere solidarietà, vicinanza, accoglienza, fa soffrire con una grande dignità, e accetta anche di mettere in crisi il proprio lavoro … Oggi una persona che conosco mi diceva: mi ha telefonato un amico poliziotto; non sa che cosa fare; non può continuare così; vorrebbe lasciare il lavoro, ma poi? La sua famiglia? Ma come è possibile stare contro la gente?
Un popolo che merita rispetto e sostegno. Per questo ribadisco e ribadiamo il nostro desiderio di continuare, nonostante le mille difficoltà che si aprono all’orizzonte. A voi chiedo il vostro ricordo