Papa Francesco nel suo viaggio in Iraq ha ricordato l’orrore dei tariffari per la vendita delle schiave yazide dell’Isis e la testimonianza della premio Nobel per la pace Nadia Murad. Ma a sei anni dal genocidio, ci sono tuttora donne e bambini prigionieri e poi venduti come schiavi tramite aste on line in Turchia
Tra i temi del viaggio apostolico di Papa Francesco in Iraq, appena concluso, è ritornata più volte la denuncia delle atrocità patite dagli yazidi nello Stato Islamico. Ancora nella conferenza stampa sull’aereo che lo riportava a Roma dopo questo storico viaggio, il Ponteficie ha raccontato che tra le motivazioni che l’hanno spinto a compiere questa visita, oltre alle tante testimonianze dei cristiani iracheni, c’è stata anche la lettura del libro “L’ultima ragazza” in cui Nadia Murad Basee, premio Nobel per la pace 2018, parla delle atrocità commesse nei confronti del suo popolo e delle violenze subite da lei stessa con l’uccisione della sua famiglia, le torture, la prigionia e l’umiliazione di essere stata più volte venduta come schiava.
Tutti abbiamo potuto così ricordare l’orrore di quando, a partire del 3 agosto 2014, i militanti dell’autoproclamato Stato islamico penetrarono nel territorio del Sinjar, nel nord dell’Iraq, con lo scopo di sterminare questa minoranza, saccheggiando i villaggi yazidi e selezionando donne e bambini per farne schiavi: furono 3.100 i morti e 6.800 le persone ridotte in schiavitù. Un vero e proprio genocidio, come riconosciuto dalla Commissione di indagine istituita dal Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu.
Quello che, però, si fa fatica a riconoscere è che quell’incubo non è ancora del tutto finito. A ricordarcelo proprio in queste ore è stata l’agenzia di informazione Al-Monitor, con un servizio su come ancora ora lo Stato islamico continui a vendere on line i prigionieri yazidi, attraverso macabre aste on line che avvengono in Turchia, dove i miliziani sono ancora in grado di beneficiare di importanti reti di connivenze.
Recente è la notizia di una bambina yazida di appena 7 anni salvata dalla polizia; la piccola era stata messa in vendita come schiava e gli agenti, fingendosi i parenti, hanno proposto l’offerta più alta, riuscendo ad ottenere l’indirizzo dell’inserzionista. Il giorno dopo è avvenuto il salvataggio tramite l’irruzione in una casa nel quartiere Kecioren di Ankara. Sempre ad Ankara, nel luglio 2020 una ragazza di 24 anni, tenuta prigioniera nel quartiere Sincan, era stata salvata dai parenti in Australia che l’hanno comprata in una vendita online. Secondo il giornalista turco, Hale Gonultas, il rapitore era un membro turkmeno dell’Isis di Mosul che si spostava spesso tra l’Iraq e la Turchia e aveva comprato la ragazza in un mercato di schiavi online nel 2018.
Un altro episodio risalente al 2017 è stato quello di un turco iracheno che nella città di Kirsehir ha provato, senza successo, a registrare due bambini come propri presso un ufficio di polizia che si occupa di rifugiati. I due bambini, 9 e 11 anni, sono stati presi in custodia dallo Stato, e – una volta che le loro foto sono state inviate ai centri iracheni che si occupano degli yazidi scomparsi – hanno ritrovato la sorella maggiore.
Dopo le aste online, i prigionieri vengono affidati a “intermediari sicuri” che spesso sono criminali coinvolti nel traffico di droga, armi, ed esseri umani. Cittadini turchi provenienti da varie parti del Paese avevano risposto all’appello dello Stato islamico di unirsi al califfato in Siria e in Iraq. I quartieri impoveriti di Ankara erano diventati fonte di reclute per il califfato che ha attirato giovani dai profili improbabili, come ubriaconi, tossicodipendenti e buttafuori di nightclub con la promessa di benefici economici.
Nonostante la sconfitta sul terreno dello Stato islamico i militanti sono riusciti a trovare rifugio, trasferire denaro e vendere prigionieri in Turchia. La polizia prende principalmente di mira i membri stranieri del gruppo, mentre i locali non vengono toccati, a meno che non si mettano in mostra o diventino oggetto di denunce. Atilla Kart – un ex deputato del Chp, il principale partito di opposizione turco – ha raccontato ad Al-Monitor che la polizia è diventata riluttante ad affrontare i gruppi islamisti, a meno che non riceva ordini espliciti da Ankara. Ha ricordato, in particolare, un incidente del 2015, quando una famiglia, cercando di rintracciare un figlio che si era unito allo Stato islamico, non è riuscita a ottenere l’aiuto della polizia anche dopo aver fornito l’indirizzo di una casa di cellule islamiste a Gaziantep, vicino al confine siriano.
In questo panorama, le detenzioni e la vendita di yazidi sono solo la punta dell’iceberg, con la rete dello Stato islamico che resta tuttora molto più grande di quanto generalmente si immagini.