Nella zona pastorale di Ta Khmau ci sono solo cinque cattolici e la maggior parte della gente non ha mai sentito nominare Gesù. La missione di padre Giovanni Tulino è fatta soprattutto di attesa e amore gratuito
Quando si dice che i cristiani si contano sulle dita di una mano non si tratta di una facile metafora. Nel caso di padre Giovanni Tulino del Pime, è la realtà della sua missione, dove i cattolici sono precisamente cinque. Le coordinate geografiche sono quelle di una periferia a sud di Phnom Penh, capitale della Cambogia: Ta Khmau, dove la missione è nata nel 2014 con padre Mario Ghezzi, attuale direttore del Centro Pime di Milano, e passata nelle mani di padre Tulino tre anni fa. Le coordinate religiose, invece, parlano di una popolazione di 15 milioni di abitanti tradizionalmente buddhisti.
I cattolici sono circa 20 mila in tutto il Paese. «Praticamente ci conosciamo tutti!», scherza padre Giovanni, che è originario di Visciano, in provincia di Napoli, diocesi di Nola. Classe 1979, è arrivato nell’ottobre del 2014 in Cambogia, un Paese dove «quasi nessuno conosce Gesù, neppure lo ha mai sentito nominare. Ma dove c’è spazio per la testimonianza e la condivisione».
Dopo i primi tre anni prevalentemente dedicati allo studio della lingua, con esperienze di conoscenza e pastorali nelle tre zone ecclesiali in cui è diviso il Paese, padre Giovanni ha accettato di trasferirsi a Ta Khmau, una zona di periferia a dieci chilometri dalla capitale, ma di fatto praticamente inglobata nella grande Phnom Penh. L’anno prossimo vi apriranno il nuovo aeroporto e hanno da poco completato una strada che la collega rapidamente alla capitale. Tuttavia ancora oggi a Ta Khmau c’è terreno edificabile e il costo della vita è un po’ più contenuto, dunque risulta maggiormente appetibile per molti che preferiscono fare i pendolari.
Anche padre Giovanni, di fatto, si divide tra Ta Khmau e Phnom Penh. Avendo fatto studi biblici a Roma, ha infatti accettato anche di insegnare Sacra scrittura in seminario, di occuparsi di pastorale biblica per la diocesi e di formare catechisti e operatori pastorali sulla Bibbia il sabato. Insomma, anche se siamo di fronte a quello che padre Tulino definisce «un piccolo gregge», il lavoro di certo non manca. «L’attività pastorale è quella in cui cerco di investirmi maggiormente e a cui dedico più tempo», racconta. Non solo, però.
Il settore pastorale di cui si occupa è formato da tre comunità: quella centrale di Ta Khmau, quella di Koh Noy, a mezzora di distanza, nata circa 15 anni fa e con 35 battezzati, e un’altra ad Ompau Prey a un’oretta di macchina.
«Io vivo a Ta Khmau e mi occupo prevalentemente di questa comunità e di quella di Koh Noy, mentre padre François Xavier, sacerdote delle Missioni estere di Parigi (Mep), che è il parroco della zona pastorale, vive a Phnom Penh e si occupa principalmente di Ompau Prey. Ta Khmau dovrebbe diventare il cuore pulsante di quest’area, anche se ci sono solo due dei battezzati originari di qui, mentre gli altri tre vengono da altre zone. Ma abbiamo anche un gruppo di quattro donne che stanno facendo il percorso del catecumenato e si stanno preparando al Battesimo».
Da qualche mese, è stata acquistata la casa vicina a quella della missione ed è stato aperto un asilo con 35 bambini e un doposcuola. Davanti c’è un grande spiazzo per giocare e al piano superiore un ostello con otto ragazzi che frequentano la scuola secondaria; provengono da alcuni villaggi e sperano di poter continuare gli studi. «L’idea è non solo di ospitare questi giovani, ma di coinvolgerli nelle attività affinché possano fare da ponte con i ragazzi del quartiere. Teniamo aperto dalle sei di mattina alle sette di sera. È l’unico spazio accessibile e i genitori si fidano a mandare i loro figli. Qualcuno si fa anche qualche domanda. Da qui, si apre una possibilità di dialogo, incontro e conoscenza».
Molti pensano che padre Giovanni sia l’insegnante. È la gente del posto a precisare che, no, lui è il prete. Ma che cosa significa? Per molti nulla. «La maggior parte della gente – spiega – non sa neppure che cos’è la Chiesa. Pensano sia un’ong o qualcosa di simile. Ma quando fanno esperienza della gratuità di Dio si aprono molte porte. Succede, ad esempio, quando portiamo un malato in ospedale o ce ne prendiamo cura senza chiedere niente in cambio. È una cosa che li colpisce molto. Sono convinto che questa sia la chiave per entrare nel cuore dei cambogiani, la Grazia, la gratuità, che nella loro cultura e mentalità non esistono. Ma non è facile, anzi. È molto difficile trasmettere la gratuità del Signore. E in cambogiano non c’è neppure una parola per dire “Grazia”».
Effettivamente, anche dal punto di vista della fede, il linguaggio rappresenta un ostacolo non facile da superare. «Siamo veramente agli inizi – conferma il missionario -; siamo un po’ come le Chiese di Paolo, il primo che è stato capace di passare dalla tradizione orale a quella scritta; tanti vocaboli li ha inventati lui. Anche per noi la difficoltà è proprio questa: non abbiamo ancora un linguaggio religioso e di fede. Anche per questo trasmettere i valori evangelici risulta complicato».
Ecco perché occorre innanzitutto tradurli in gesti. Nei villaggi, ad esempio, vengono promosse attività di sensibilizzazione e formazione soprattutto sui temi dell’igiene e della prevenzione delle malattie, in particolare con bambini e genitori. Prima del Coronavirus era stata avviata anche un’attività medica che aveva avuto una risposta molto positiva, ma che per il momento è ancora sospesa.
«Ci sono villaggi – spiega padre Giovanni – dove le condizioni di vita sono davvero molto precarie. Due volte al mese proponiamo un’oretta di formazione. Per un po’ di tempo, l’abbiamo fatta in strada. Poi, una nonna, meravigliata del fatto che andassimo a educare i loro figli e nipoti, ci ha offerto di usare il suo cortile. Non sa nemmeno chi sono, ma ha messo a disposizione la sua casa e dopo l’incontro prepara qualcosa da mangiare per i bambini. Mi ha molto colpito, anche perché non avviene frequentemente».
L’esperienza più comune, semmai, è quella del “ciascuno per sé”. «Penso di non essere ancora entrato completamente in questa realtà. A livello culturale, una cosa a cui faccio fatica ad abituarmi è la mancanza di senso del bene comune. Questo si riflette anche nei cammini ecclesiali e nelle realtà di fede. Chi arriva al Battesimo proviene da un’altra tradizione religiosa che sostanzialmente dice che se fai il bene ricevi il bene, se fai il male ricevi il male. Non è facile per loro confrontarsi con una fede diversa che dice che sei amato e basta, che c’è un amore che ti raggiunge e che ti chiede di farti prossimo. Io sono cresciuto con questo valore, faccio della fraternità un punto forte sia delle relazioni che della mia vita spirituale, ma qui non sempre è compreso».
Bisogna allora accontentarsi delle cose semplici e delle relazioni quotidiane: i bambini che vanno all’asilo, i ragazzi dell’ostello che sognano il loro futuro, i poveri e gli ammalati che cercano cura e sostegno, sconosciuti che si lasciano incuriosire… «C’è una trama vivace di relazioni e di legami di amicizia – conferma padre Giovanni – da cui spesso nascono anche delle domande. Io ho nel cuore la speranza che prima o poi qualcuno mi chieda in nome di cosa faccio tutto questo. Perché quando arriva questa domanda allora puoi condividere e, in qualche modo, anche annunciare».
Da qui possono nascere anche cammini, progetti e soprattutto incontri, fatti di volti e di storie, di fatiche e speranze. Di sorprese e di stupore. «Un posto così è per certi versi entusiasmante – continua il missionario – perché qualsiasi cosa è una novità. Ta Khmau è in una fase in cui tutto è davvero nuovo, tante cose risuonano per la prima volta. È bello e difficile. Soprattutto è una grande responsabilità. Devi spiegare a chi non sa nulla del cristianesimo chi è Gesù, e talvolta mi chiedo se io stesso l’ho davvero capito! Sento di essere nella fase della preparazione del terreno, non ancora della semina: lo stiamo arando, annaffiando, poi verrà chi seminerà e dopo si vedrà…».
Ovviamente non mancano i momenti di fatica o di sconforto. «Questo avviene specialmente quando ciò che proponi non ha risposta, non attecchisce, non viene capito. Forse a volte si forzano un po’ le cose. Mi rendo conto che bisogna rispettare i tempi di assimilazione e comprensione della gente. A quarant’anni, avevo l’entusiasmo di chi era arrivato da poco e avrebbe voluto condividerlo. All’inizio facevo fatica, adesso ho imparato, soprattutto ad attendere. Però ho capito che questo attendere ti fa amare. Anzi, sono convinto che attendere è una delle declinazioni più belle del verbo amare. Adesso sento che è proprio così. Anche quando ci sono momenti di frustrazione o di solitudine e gli insuccessi si susseguono l’uno dopo l’altro, mi ripeto questa frase: “Attendi e ama”».