L’estrazione del minerale necessario alle batterie delle auto elettriche produce inquinamento e conflitti e si fonda sul lavoro forzato anche minorile. Nelle miniere del Congo il lato oscuro della “rivoluzione green”
Oro, coltan, cassiterite, diamanti… Ma anche e sempre di più cobalto. Se n’è riparlato nelle scorse settimane, dopo l’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovazzi e del loro autista Mustapha Milambo, massacrati il 22 febbraio nei pressi di Goma, nelle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo. Queste e molte altre risorse del suolo e del sottosuolo sono la vera posta in gioco del conflitto endemico che si trascina da quasi 25 anni specialmente nel Nord e Sud Kivu e nell’Ituri, e che coinvolge circa 120 gruppi armati di varia matrice (anche jihadista) e di diverse nazionalità (con la presenza/ingerenza in particolare del Ruanda). Conflitto che provoca e, al tempo stesso, si nutre dello sconfinato e drammatico sfruttamento non solo dei minerali, ma anche dell’ambiente e delle persone.
«La situazione della sicurezza nel nostro Paese, soprattutto nella parte orientale – hanno stigmatizzato i vescovi della Conferenza episcopale della R.D. Congo (Cenco) – resta precaria, aggravata dalla presenza di gruppi armati che l’esercito nazionale, sostenuto dalla Missione Onu (Monuco), non è ancora in grado di debellare. I massacri di popolazioni, i rapimenti e lo sfollamento di persone, e ultimamente lo spregevole assassinio dell’ambasciatore d’Italia con la sua guardia del corpo e l’autista, lo dimostrano a sufficienza». I vescovi ricordano anche l’inarrestabile «repressione degli attivisti per i diritti umani, gli attacchi contro i civili da parte di gruppi armati o forze governative, la violazione della libertà di espressione e di manifestazione».
Anche in passato, la Chiesa congolese, così come diverse organizzazioni di difesa dei diritti umani, sia congolesi che internazionali, hanno denunciato lo scempio che viene compiuto in vaste aree del Paese e il grave, gravissimo sfruttamento. Un fenomeno devastante che riguarda milioni di lavoratori artigianali nelle miniere del Nord e Sud Kivu, ma anche in quelle della regione sud-orientale del Katanga, dove si estrae il cobalto. Che è definito l’“oro del futuro”. Ma che è anche l’ennesima maledizione per il popolo congolese.
«La popolazione della nostra regione sta affrontando una crescente e sempre più grave insicurezza di cui le grandi città costituiscono l’epicentro – hanno scritto recentemente i vescovi delle otto diocesi della provincia ecclesiastica di Lubumbashi, capoluogo del Katanga -. Siamo anche rattristati nel vedere che uccidere una persona innocente tende a diventare un gesto banale. La vita di innumerevoli figli di Dio, che è sacra e inviolabile, viene spietatamente soppressa con sconcertante atrocità».
«La maggioranza delle situazioni di conflitto e insicurezza all’Est del Paese è dovuta allo sfruttamento delle risorse naturali e dei minerali – ci precisava il cardinale Fridolin Ambongo che, prima di diventare arcivescovo di Kinshasa, è stato presidente della Commissione per le risorse naturali, ricevendo anche minacce di morte per le sue denunce -. Le ricchezze del sottosuolo attirano armi e insicurezza. Non bisogna smettere di parlarne. C’è un grande lavoro di sensibilizzazione da fare, sia dei leader che della popolazione».
Così come per il coltan – di cui la R.D. Congo possiede l’80% delle riserve mondiali -, anche per il cobalto il Paese detiene circa la metà dei 7 milioni di tonnellate stimate a livello globale, la maggior parte nella regione del Katanga. Pure in questo caso si tratta di un minerale sempre più strategico, in particolare per lo sviluppo dell’industria automobilistica proiettata verso la produzione sempre più massiccia di veicoli elettrici o ibridi. Una “rivoluzione green”, la definisce qualcuno. Ma che di ecologico ed etico ha ben poco. Sia all’origine – nell’estrazione del cobalto -, sia nella produzione – un business miliardario e molto dispendioso -, sia nello smaltimento delle batterie al litio.
Ed è proprio per la produzione di queste ultime che il cobalto risulta indispensabile, in quanto ha la proprietà di immagazzinare grandi quantità di energia in piccole masse, con elevata resistenza alle alte temperature. Per la batteria di un’auto elettrica ne servono dai 4 ai 14 chilogrammi, per un’ibrida circa 4.
La R.D. Congo estrae attualmente il 60% del cobalto globale (di cui il 10-20% in miniere informali). La produzione è cresciuta considerevolmente tra il 2008 e il 2018, passando da 32.300 tonnellate a 104 mila, per poi diminuire leggermente nel 2019 (100 mila) e nel 2020 (95 mila). Il tutto accompagnato da impennate dei prezzi in Borsa, specialmente tra il 2016 e il 2018, e da una flessione negli ultimi due anni, anche a seguito della decisione di Tesla di iniziare a usare batterie senza cobalto. Per il momento, tuttavia, l’azienda americana è un importante acquirente di questa materia prima. Anche per questo, l’ong International Rights Advocates, a nome di 14 famiglie congolesi, aveva accusato Tesla – insieme ad Apple, Microsoft, Alphabet e Dell – di usare “cobalto insanguinato” della R.D. Congo.
Ma perché “insanguinato”? Perché, come succede anche per gli altri minerali di questo Paese, viene spesso estratto in condizioni di pesante sfruttamento della manodopera, senza misure di sicurezza, con casi di inquinamento tossico, non solo dell’ambiente e dell’acqua ma anche delle persone, e soprattutto con l’impiego di minori. L’Unicef parlava già nel 2014 di 40 mila ragazzini e ragazzine sfruttati nelle miniere. Ma il loro numero potrebbe essere maggiore, se è vero che nel Paese ci sono circa 12,5 milioni di persone impiegate nel settore minerario (su una popolazione di circa 100 milioni di abitanti) e tra di loro il numero dei minori è impressionante. Basta visitare una di queste miniere per rendersene conto, specialmente se si tratta di scavi informali.
Lo ha ripetutamente denunciato anche Amnesty International che, dopo un primo rapporto nel 2016, ne ha pubblicato un secondo l’anno scorso, lanciando anche un appello internazionale per mettere fine allo sfruttamento del lavoro minorile. «Questi bambini – vi si legge – lavorano in condizioni estreme, alcuni di loro più di dodici ore al giorno, senza alcuna protezione e percependo salari da fame. Si ammalano prima e più dei loro coetanei. Rischiano ogni giorno incidenti sul lavoro a causa di carichi troppo pesanti fino alla morte per i frequenti crolli nelle grotte artigianali. Spesso sono picchiati e maltrattati dalle guardie della sicurezza».
Per questo, Amnesty International ha chiesto al governo congolese di «fermare questa barbarie e di mettere in atto tutte le misure per garantire la salute dei bambini, i loro bisogni fisici, educativi, economici e psicologici». Non solo. L’organizzazione internazionale ha puntato il dito anche contro il grave inquinamento dell’ambiente e l’avvelenamento delle persone. Una recente ricerca condotta dalle Università di Lubumbashi, Lovanio e Gand ha messo infatti in evidenza come l’esposizione all’inquinamento tossico provochi problemi respiratori e malattie della pelle ai minatori, ma anche difetti congeniti nei loro figli, specialmente di coloro che lavorano nelle miniere di rame e cobalto.
«Quando si visita questa zona della Repubblica Democratica del Congo – ha dichiarato Mark Dummett, direttore del programma Imprese, sicurezza e diritti umani di Amnesty International – si è immediatamente colpiti dal forte inquinamento e dalla mancanza di azione da parte del governo e delle aziende dell’industria estrattiva per evitarlo e per proteggere le persone che lì vivono e lavorano e che non hanno alcun modo di sfuggire alle polveri». «Le preoccupanti scoperte di questo rapporto – ha aggiunto – indicano che il danno fatto potrebbe avere effetti a lungo termine.
Emerge quindi la necessità di una maggiore regolamentazione dell’industria estrattiva, affinché ambiente e lavoratori siano protetti, e di un’assunzione di responsabilità da parte delle multinazionali che traggono vantaggio da queste miniere, affinché intraprendano azioni allo scopo di evitare di produrre inquinamento a danno delle persone e del pianeta. L’industria estrattiva in R.D. Congo dovrebbe portare benefici anche alle comunità locali, non solo alle potenti multinazionali».
Ma chi sfrutta il cobalto del Congo? La maggior parte dell’estrazione è nelle mani del colosso svizzero Glencore, che lo scorso anno ha siglato un contratto anche con Tesla; si tratta del primo fornitore mondiale, che opera non solo in Congo, ma anche in Australia e Canada. Altre imprese, dalla belga Umicore, che si occupa di raffinazione, alla cinese Zhejiang Huayou Cobalt, fornitore di Apple, Microsoft e Dell, operano ai vari livelli della filiera. La Cina, che ha strettissimi e lucrosi rapporti commerciali con il Paese africano, ha anche una posizione dominante a livello mondiale per quanto riguarda la raffinazione del cobalto, il 70% della quale viene appunto realizzata da aziende cinesi.
Nell’agosto del 2020, Impact Facility – un’organizzazione internazionale che promuove la sostenibilità economica e ambientale per le comunità minerarie artigianali e su piccola scala – ha dato vita alla Fair Cobalt Alliance, un’alleanza mondiale che dovrebbe contrastare lo sfruttamento del lavoro forzato e minorile nei luoghi di estrazione. Vi aderiscono sia la Glencore che la Huayou Cobalt, la più grande impresa cinese di raffinazione al mondo, e diversi altri operatori del settore.
L’auspicio è che l’impegno scritto si traduca anche nei fatti. Lo stesso per quanto riguarda il governo congolese che si è detto determinato a “ripulire” il settore della produzione del cobalto e ha creato, nel febbraio del 2020, una nuova agenzia, l’Entreprise Générale de Cobalt, filiale del colosso minerario di Stato Gécamin. L’obiettivo è di acquistare e commercializzare tutto il cobalto prodotto nelle miniere informali. Ma anche di far pagare le tasse ai lavoratori artigianali. Che non l’hanno presa bene. Insomma, a tutti i livelli la posta in gioco è grande: dalla sopravvivenza dei piccoli minatori dell’Est del Congo agli investimenti miliardari dell’elettrificazione della mobilità. Che in tutto ciò ci sia qualcosa di veramente “sostenibile” c’è molto da dubitare.
BOX
«SIAMO QUI PER VOI!»
Luca Attanasio interpretava il suo ruolo di ambasciatore come una missione. «Sono qui al vostro servizio», soleva ripetere. Al servizio dei tanti italiani presenti in Repubblica Democratica del Congo, tra cui moltissimi missionari, missionarie e operatori umanitari. Ma anche al servizio del popolo congolese, e specialmente dei più fragili e vulnerabili, di cui si occupava talvolta attraverso iniziative personali con la moglie. La sua uccisione, il 22 febbraio scorso nei pressi di Goma (Nord Kivu) – insieme a quella del carabiniere Vittorio Iacovazzi e dell’autista Mustapha Milambo – ci ha fatto scoprire una figura di diplomatico che dava corpo e senso diverso a questo ruolo.
Tra le tante testimonianze circolate nelle scorse settimane, facciamo nostra quella di due suore saveriane di Uvira, nel Sud Kivu, Delia Guadagnini e Genoveffa Gargiulo, che proprio per la sua semplicità ci sembra restituire il ricordo più vero del nostro ambasciatore: «Luca era una persona buona, attenta, amabile, aperta all’altro, desiderosa di fare del bene, di promuovere il bene. Amava la Repubblica Democratica del Congo. Capace di stare coi grandi e coi piccoli, sorridente, affettuoso, pieno di iniziative. Molto colto e altrettanto umile. Sempre molto accogliente, sobrio nel vestire e capace di tessere relazioni. In questi quattro anni di servizio diplomatico, abbiamo riconosciuto la sensibilità sociale del nostro ambasciatore, un atteggiamento di ascolto e di intervento nelle situazioni di povertà, una vicinanza che ci incoraggiava, sia nei momenti di difficoltà che nelle occasioni ufficiali. Quando nell’aprile dell’anno scorso, la furia delle acque si è abbattuta su Uvira, ci ha telefonato più volte. Voleva accertarsi che stessimo bene, che avessimo trovato un luogo dove rifugiarci. Chiedeva dove era scappata la popolazione, chi ci stava dando una mano. La sua voce ci ha espresso vicinanza e affetto. Tutte le volte che mi chiamava al telefono, concludeva con queste parole: “Suor Delia, non si faccia riguardo a chiamarmi, mi dica se avete bisogno di qualcosa. Siamo qui per voi!”».