Lo Xinjiang – regione macchiata dalla repressione di Pechino contro la minoranza musulmana – è il maggior fornitore al mondo di polisilicio, utilizzato per la produzione dei pannelli solari. Secondo il governo cinese il programma aiuta le minoranze etniche povere, ma un reportage di Bloomberg solleva nuovi pesanti interrogativi sul rispetto dei diritti umani
A quattro ore di macchina da Urumqi – la capitale dello Xinjiang, nella Cina nordoccidentale – ci sono due impianti che producono grandi quantità di polisilicio, la materia prima utilizzata per produrre i pannelli solari di tutto il mondo. La regione è al centro della repressione cinese contro gli uiguri e altre minoranze musulmane, intensificatasi dal 2010 dopo una serie di attacchi terroristici mortali da parte degli uiguri in cerca di una maggiore autonomia politica e culturale.
Quasi nessuno fuori dalla Cina sa che cosa succeda all’interno di queste fabbriche, né di altre due nello Xinjiang che insieme producono quasi la metà della fornitura mondiale di polisilicio. Su questo tema prova a fare luce un dettagliato reportage dell’agenzia Bloomberg, pubblicato in questi giorni.
Con i leader di tutto il mondo sempre più impegnati per un futuro senza carbonio, ci si aspetta un nuovo record di installazioni di pannelli solari quest’anno; lo Xinjiang produrrà circa la metà del polisilicio e la Cina rappresenterà più dell’80% della fornitura complessiva. Ma i consumatori non possono tracciare la provenienza dei loro pannelli, poiché le materie prime provenienti da più fabbriche si mescolano lungo la catena di approvvigionamento solare. Anche se trovassero un collegamento con lo Xinjiang, quanto succede all’interno delle quattro fabbriche rimane sconosciuto. Questo significa che milioni di proprietari di case che comprano pannelli solari affrontano l’incertezza morale di abbracciare un futuro più verde senza aver modo di sapere se stanno acquistando prodotti frutto del lavoro forzato e del carbone sporco.
L’oscurità delle condizioni di lavoro nello Xinjiang è una ragione sufficiente per aziende solari e investitori per essere cauti, ma il principale motivo per cui queste fabbriche sono nella regione è l’abbondanza di carbone a basso costo. Trasformare la sabbia in polisilicio è un processo ad alta intensità energetica e lo Xinjiang ha alcune delle tariffe energetiche più economiche del Paese. Ed è per questo che tutte e quattro le fabbriche sono situate vicino alle centrali a carbone. Ma bruciando il combustibile fossile più sporco, si macchiano i benefici climatici dei pannelli solari prodotti.
Le aziende e i governi sono sempre più a disagio per la loro dipendenza da una regione piena di accuse di abusi dei diritti umani. Alcuni Paesi occidentali accusano ormai apertamente il governo cinese di commettere un genocidio nella regione. A marzo, gli Stati Uniti, il Regno Unito, l’Unione Europea e il Canada hanno imposto nuove sanzioni alla Cina per i presunti abusi. La Cina sostiene che il suo programma di trasferimento di manodopera forma i lavoratori e li invia alle fabbriche, uno sforzo per aiutare le minoranze etniche povere a trovare un impiego migliore. Ma per accademici e attivisti tutto questo fa parte di una lunga storia di utilizzo di strutture statali coercitive per opprimere i musulmani della Cina, spogliandoli della loro cultura e separandoli dalle loro famiglie.
La Cina sostiene che le accuse siano bugie inventate dalla concorrenza e recentemente ha dichiarato che giornalisti e diplomatici sono liberi di andare a verificare di persona. E’ quanto due reporter di Bloomberg hanno provato a fare recandosi nello Xinjiang a marzo. Due agenti di polizia, però, li hanno seguiti ovunque, ostacolando ogni tentativo di parlare con la gente del posto e cancellando tutte le immagini che avevano scattato.
Le aziende stanno creando reti di tracciamento in modo da documentare se i loro pannelli solari contengono polisilicio dello Xinjiang. ma la catena di approvvigionamento si sta già spostando con l’aumento dei controlli e i produttori di polisilicio dello Xinjiang stanno progettando nuove fabbriche fuori dalla regione. “Se ad agire sulla Cina fossero solo un paio di nazioni, sarebbe un rimescolamento della catena di approvvigionamento, niente di più”, dice Dustin, Mulvaney, professore di studi ambientali alla San José State University.
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