L’esperienza di un giovane missionario in un Paese dove la diffusione dei social network è capillare. Tra rischi e nuove opportunità
Il Brasile è un Paese molto coinvolto nella realtà dei social network: secondo i dati pubblicati dal sito datareportal nel gennaio 2021 contavano 150 milioni di utenti, pari al 70,3% della popolazione totale del Paese. Davanti a questa realtà, la Chiesa è molto attenta, creativa e professionale nel suo essere presente nel mondo virtuale e digitale. La Pastoral da Comunicação (Pascom) vuole essere infatti la risposta alla sfida dell’evangelizzazione nel mondo della rete.
La Pascom è organizzata in migliaia di comunità e parrocchie nella maggior parte delle diocesi del Brasile. Tra i suoi obiettivi ha quello di mettersi al servizio per dialogare con il mondo dei media, coinvolgendo anche professionisti e ricercatori. Oltre alle Chiese locali, poi, anche quasi tutti gli istituti religiosi brasiliani hanno un’équipe per la comunicazione. Dunque, se la questione è come raggiungere le persone nel mondo digitale, senza dubbio la Chiesa in Brasile lo fa. A mio avviso c’è però una preoccupazione: visto che i media – soprattutto i social – sono realtà trasversali che vanno oltre i confini geografici, il grande rischio è perdere il senso di appartenenza alla propria comunità parrocchiale.
Ci sono tantissime iniziative e grandi eventi che diversi gruppi religiosi offrono ai giovani, in presenza oppure on line. Quindi i ragazzi possono essere facilmente coinvolti in queste iniziative, che senza dubbio sono una cosa buona per la propria spiritualità o formazione. Ma resta il rischio di diventare cristiani nomadi digitali, senza un legame con una comunità che dà il senso di un impegno per il bene comune, visto che on line si tende a seguire molto di più le proprie preferenze personali.
In questo periodo di isolamento causato dal Covid-19, durante una videochiamata, uno dei giovani che sto accompagnando nel cammino di discernimento vocazionale mi ha posto una domanda interessante: «Padre, lei come vive il suo essere missionario in questo tempo di pandemia, quando tutto è chiuso?». Mi sono fermato un po’ a riflettere: quando si pensa al missionario, si ha sempre l’idea di qualcuno che esce e va incontro alle persone, “Chiesa in uscita” come Papa Francesco ripete spesso. Ma in un momento in cui siamo costretti a stare chiusi in casa sembra quasi difficile vivere questo gesto.
Dopo aver riflettuto un po’ gli ho detto che si può ugualmente essere missionari in questo tempo difficile proprio con l’aiuto della tecnologia. Grazie alle varie piattaforme di videochiamate, ci si riesce a incontrare, grazie ai social si può rimanere in contatto con le persone. Al di là degli strumenti, però, sono convinto che siano la disponibilità e l’attenzione che il missionario offre a fare la differenza. Perché è possibile avere tanti profili social, ma se non sono utilizzati per raggiungere le persone, per “stare” davvero con loro quando hanno bisogno di parlare, restano lo stesso inutili. Quindi, secondo me, sì: è possibile essere missionario anche in questo campo, andare oltre, in una vera e propria missione ad gentes tra la grande parte della popolazione presente nel mondo virtuale. I momenti difficili della pandemia ce lo hanno dimostrato.
Certo, questo richiede uno stile: dobbiamo capire che nei social esiste un linguaggio molto comune, diffuso tra i nativi digitali cioè la generazione nata e cresciuta in corrispondenza con la diffusione di queste nuove tecnologie informatiche. Un’altra indagine locale sull’accesso a internet ha rivelato che nel 2018 in Brasile gli scambi di messaggi di testo, vocali o immagini attraverso applicazioni sono stati utilizzati dal 95,7% delle persone sopra i 10 anni che accedono alla rete. L’evangelizzazione è comunicazione: è essenziale conoscerne i linguaggi, anche questa è “inculturazione” per un missionario. È come imparare una “nuova lingua” per capire la mentalità dei giovani di oggi, comprendere meglio la loro realtà e quindi poter comunicare loro il Vangelo.
I ragazzi si meravigliano quando utilizzo le espressioni che usano loro in rete, si sentono a proprio agio e si aprono perché percepiscono che qualcuno capisce il loro linguaggio. Ma non può essere un mezzo di comunicazione fine a se stesso, è uno strumento per una testimonianza di vita: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (…) noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1 Gv 1,1-4). Sì, si tratta di imparare un nuovo linguaggio che comunichi una vita vissuta intessuta della Parola di Dio e dell’Eucaristia, non solo un semplice mezzo banale per guadagnare la simpatia dei giovani. Perché l’annuncio deve essere sempre accompagnato dalla testimonianza: i ragazzi di oggi sono osservatori attenti, anche in rete cercano veri testimoni del Vangelo.
Infine i social network riducono le distanze nel mondo e questo può diventare un altro dono prezioso. Per esempio aiutano a divulgare informazioni sulle varie realtà della Chiesa sparsa nei diversi continenti, avvicinano i popoli a migliaia di chilometri di distanza, incentivano uno scambio di esperienze e culture che magari in nessun altro modo conosciamo. Ed aprire gli orizzonti della mente di ciascuno è sempre il modo migliore per superare il rischio di pensare solo a se stessi.