La fede ci rende liberi

La fede ci rende liberi

È uno dei Paesi più poveri al mondo. Ed è uno dei regimi più oppressivi. La resistenza della piccola Chiesa cattolica eritrea. Che cerca di frenare l’esodo di migliaia di giovani in fuga

 

«Dov’è tuo fratello? Dov’è tuo nipote, tua nipote? In che condizioni vivono?». E chi «risponde di questo tristissimo stato di cose?». E ancora: «Dove, in che situazione, si trova il nostro Paese? È un interrogativo che non possiamo eludere…».

Così si interrogavano, i vescovi cattolici eritrei che, lo scorso anno, avevano scritto una lettera pastorale molto intensa, pieni di apprensione e anche di sgomento. Era di pochi mesi prima, la strage di Lampedusa, del 3 ottobre 2013, costata la vita a 328 persone in gran parte eritree. E non sarebbe stata l’ultima. Migliaia di giovani in fuga da questo Paese continuano a trovare la morte lungo le rotte del deserto e la traversata del Mediterraneo. Lasciano tutto in cerca di una vita migliore in Europa. E spesso ci lasciano anche la vita.

«Sembra un’emorragia senza fine – conferma padre Amanuel Mesgun Temelso, provinciale dell’Ordine dei Frati minori cappuccini (OfmCap) in Eritrea – come se i nostri giovani non vedessero altra possibilità di futuro se non quella di andarsene dal Paese».

Classe 1957, padre Amanuel viene da una famiglia cattolica. Ovvero da una minoranza ridottissima dell’1-2 per cento, in un Paese dove la Chiesa “storica” e maggioritaria è quella copta-ortodossa. Entrato in seminario, seguendo l’esempio di padre Dositeo Magoni da Selvino, la sua vocazione non fu presa per niente bene dalla famiglia. «Ero l’unico maschio e si aspettavano da me che assicurassi la discendenza. C’è voluto molto perché si riappacificassero con questa mia scelta».

Una scelta che ha rappresentato in qualche modo una sfida continua, che ha accompagnato l’intera sua vita. «Dire di no alla famiglia non è stato poi l’aspetto più difficile. Perché poi abbiamo dovuto dire no al regime, che voleva imporre a tutti i giovani il servizio militare illimitato. È questa una delle ragioni che spinge molti ragazzi ad andarsene. Per noi religiosi cattolici è inaccettabile dover sottostare alla prospettiva di essere disponibili per la leva a vita. Ci siamo opposti. Per questo, e non solo, il regime ci guarda con sospetto e ci controlla da vicino. Per non parlare delle ritorsioni. Noi religiosi, ad esempio, non possiamo avere il passaporto prima di aver compiuto cinquant’anni».

Non è l’unica limitazione. La Chiesa cattolica, così come tutti i gruppi religiosi, sono tenuti sotto strettissimo controllo da parte del regime di Isaias Afewerki, il presidente-dittatore che guida il paese con pugno di ferro dal 1993.

Secondo la World Watch List, dell’organizzazione Open Doors, che monitora le persecuzioni dei cristiani nel mondo, l’Eritrea si classifica ai primissimi posto. Nell’ultimo anno, anzi, la sua situazione sarebbe ulteriormente peggiorata, passando dal dodicesimo al nono posto. «L’Eritrea – si legge nel Rapporto 2015 – è sottoposta ormai da anni a un regime autoritario, che cerca di avere il controllo totale e un’influenza sempre più forte sulla vita dei cittadini. Attualmente, il regime sta facendo il possibile per mantenere il proprio potere e, nel tentativo di rafforzarlo, i cristiani sono arrestati, oppressi e uccisi perché considerati una minaccia per la sicurezza dello Stato e del governo».

Sparizioni, omicidi e torture riguardano in particolare i cristiani pentecostali, che sono visti come un’entità “estranea” al Paese. Lo Stato, infatti, riconosce ufficialmente solo la Chiesa ortodossa copta, quella cattolica e quella evangelica luterana. Ma, con l’eccezione della Chiesa ortodossa – che vanta una lunga e riconosciuta storia ma anche una forte vicinanza al regime – tutti gli altri sono “controllati a vista”. «Noi, Chiesa cattolica – conferma padre Amanuel – siamo percepiti come non abbastanza “patriottici”. Anche se in passato alcuni frati hanno lasciato per andare a combattere con guerriglia, ci considerano parte di rete di una rete internazionale di spionaggio. Un braccio dell’Occidente. Fa parte della paranoia del regime, che ha creato uno stato di polizia, con spie dappertutto, ma che a sua volta si sente sempre in qualche modo spiato o minacciato. Ovviamente non facciamo parte di nessuna rete e non cospiriamo contro il governo. Vorremmo solo poter essere più vicini alla nostra gente, anche concretamente».

Il regime eritreo, infatti, impedisce qualsiasi forma di opera sociale e impegno solidaristico. In passato, ha cacciato tutte le ong straniere. Sono rimaste solo alcune grandi agenzie dell’Onu.

E anche per chi è rimasto, come la piccola Chiesa cattolica – che ha mantenuto molti legami specialmente con le congregazioni religiose italiane – non è possibile avere relazioni con l’esterno. Nemmeno per le emergenze. Ormai i cattolici – clero, suore, fedeli – sono quasi tutti eritrei. Tutti i missionari stranieri che non avessero almeno trent’anni di presenza nel Paese sono stati cacciati in passato. E nessun nuovo è ammesso. «Se abbiamo bisogno di qualcosa, dovremmo chiedere al governo. Ma il governo non ha niente. E allora facciamo quello che possiamo. Ma non siamo autorizzati a ricevere nulla dall’esterno».

Tutte le opere sociali dell’Eritrean Catholic Secretary – la Caritas Eritrea – sono state proibite. Il governo ha fatto chiudere gli uffici e sequestrato tutti i materiali e gli strumenti. Faceva molte attività di sviluppo che sono state praticamente quasi tutte chiuse. Ora il Segretariato continua a funzionare soprattutto per le attività pastorali.

Nonostante pressioni e controlli, il regime ammette almeno la presenza di scuole e cliniche. Scuole che, del resto, sono frequentate anche dai figli della leadership, nonché da molti musulmani, che rappresentano circa il 50 per cento della popolazione e che ne riconoscono la qualità dell’insegnamento. La Chiesa gestisce più di un centinaio di istituti di formazione, dalle materne al College, e moltissimi piccoli centri sanitari, specialmente nei villaggi più remoti. «È una presenza importante che garantisce istruzione e cura a chi non potrebbe averne». Il regime tollera e controlla.

«Sin dalle piccole cose sappiamo di essere controllati. Un esempio? Recentemente è stata inaugurata una nuova scuola aperta dai cappuccini. Dopo l’alza-bandiera nazionale, abbiamo voluto sollevare anche una nostra bandiera con la scritta “pace e bene”. È subito intervenuta la security! Lo stesso in un’altra scuola, dove dopo l’inno nazionale facevamo recitare il padre nostro. Ce l’hanno proibito. Se volevamo continuare, dovevamo farlo in classe. Sanno sempre tutto e subito!».

Padre Amanuel ci è abituato e quasi ci scherza sopra. «Nel Paese c’è una televisione, una radio, un giornale, un partito, un capo!». Conosce perfettamente i limiti entro cui si può agire. Ma questo senso di controllo e oppressione soffocanti sono intollerabili per molto giovani che sognano libertà e migliori condizioni di vita. Spesso sono i più istruiti che se ne vanno. E la maggior parte sono cristiani. Del resto, il Paese è poverissimo, agli ultimi posti nell’indice dello sviluppo umano. L’80 per cento della popolazione vive di agricoltura. E quest’anno, la drammatica assenza di piogge rischia di provocare l’ennesima carestia. E poi da fuori, chi è partito racconta solo il lato positivo del sogno: il cellulare con Internet (che in Eritrea è costosissimo e controllatissimo) appena varcato il confine con il Sudan, la festa di compleanno che nessuno si sognerebbe di festeggiare in Eritrea, il nuovo paio di jeans… «Non raccontano le minacce e le torture, le violenze e i ricatti – dice padre Amanuel -. Ma io ricevo continuamente telefonate di giovani finiti nelle mani dei predoni nel Sinai, che chiedono anche 30/40 mila dollari per liberarli. Una cifra inimmaginabile per le famiglie. Mi fanno una pena enorme quelle mamme disperate, che ricevono a loro volta le telefonate dei figli mentre vengono torturati. Vendono tutto e fanno debiti insostenibili per pagare il riscatto! Ne conosco uno che si è finto pazzo per essere liberato senza pagare il riscatto. Gli è andata bene. Ma tanti altri vengono uccisi e i loro organi rivenduti per i trapianti illegali».

Sarà un Natale triste quest’anno in Eritrea? «Sarà come tutti gli altri anni – dice padre Amanuel -. Innanzitutto, siamo una Chiesa di rito orientale e dunque celebriamo il Natale il 7 gennaio, come la Chiesa copta ortodossa, con la stessa lingua – il ge’ez, una sorta di amarico antico -, gli stessi testi e la stessa liturgia di quella tradizione. Qui da noi in Eritrea sono molto più sentite le festività della Pasqua o la celebrazione dei Battesimi. Ma anche la festa dell’Esaltazione della croce è molto popolare, una specie di festa nazionale, che si celebra a settembre e segna l’inizio del raccolto. Il 25 dicembre ci saranno delle celebrazioni in inglese e italiano per la comunità internazionale che vive a L’Asmara. Questo non fa parte della nostra tradizione, ma mi piacerebbe che simbolicamente il Natale fosse celebrato nel mondo, ricordando anche i fratelli eritrei e tutti quei cristiani che continuano a vivere in condizioni estremamente difficili in tante regioni del pianeta».