Giustizia sociale e cambiamenti climatici. Che rapporto lega clima e fame, ambiente e qualità della nutrizione? E sino a che punto tale rapporto si è deteriorato? Cosa è possibile fare ora? Mentre si apre la Conferenza di Parigi sul clima cinque domande e risposte con Adriana Opromolla (responsabile ambiente Caritas Internationalis)
Cosa si intende con l’espressione giustizia climatica?
Il concetto di giustizia climatica scaturisce da una considerazione obiettiva e facile da comprendere: i più colpiti dai cambiamenti climatici sono i poveri, le comunità e i gruppi più emarginati. Eppure non sono loro ad aver causato i danni all’ambiente che hanno portato il pianeta nella situazione attuale. Fare “giustizia climatica” significa da una parte attuare delle politiche per contenere il riscaldamento globale, dall’altra dare un concreto sostegno ai Paesi più poveri che devono adattarsi alle conseguenze di errori commessi da altri. La parola “giustizia climatica” suggerisce una profonda connessione tra le tematiche ambientali e quelle sociali. Ci dice, per esempio, che non è possibile scindere l’impegno per la tutela del creato dalla lotta alla povertà, che queste due sfide sono interdipendenti.
Riscaldamento globale, Che cos’è?
Un rapporto del Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici (Intergovernamental Panel on climate change) ha concluso che la maggior parte degli aumenti di temperatura sul pianeta, dalla metà del ventesimo secolo in poi è, con molta probabilità, da imputare all’incremento di gas serra prodotti dall’uomo, mentre è molto improbabile che possano essere spiegata, ricorrendo solo a cause naturali. L’aumento delle temperature sta causando cambiamenti meteoreologici: le piogge sempre più irregolari e imprevedibili, con nubifragi che si alternano a periodi di siccità. Dell’instabilità metereologica soffrono prima di tutto i piccoli agricoltori, per i quali diventa sempre più difficile programmare la semina; organizzare il raccolto e prevenire le catastrofi naturali.
Cosa c’è in gioco al summit sul clima di Parigi?
La posta in gioco è altissima. Dopo oltre 20 anni di mediazioni quest’anno si intende formalizzare un accordo condiviso e accettato da tutte le nazioni che parteciperanno alla Ventunesima Conferenza delle parti (Cop 21) che si terrà dal 30 novembre all’11 dicembre a Parigi. Da questo vertice ci aspettiamo un accordo giuridicamente vincolante sulla riduzione delle emissioni inquinanti. Uno degli snodi più concreti da affrontare sarà il finanziamento del Fondo climatico verde: 100 miliardi di dollari annui per realizzare progetti di adattamento al clima nei Paesi in via di sviluppo. Caritas, ha chiesto che il fondo sia alimentato dalla finanza pubblica in modo mantenerne la neutralità e l’accessibilità a tutti e che il 50 per cento delle risorse siano destinate ai piccoli agricoltori.
Quali misure si dovranno adottare?
Per contenere il riscaldamento globale sarà necessario un graduale abbandono delle energie fossili a favore delle energie rinnovabili, facendo attenzione a trovare delle alternative che non abbiano impatti sociali negativi. Penso per esempio agli agrocarburanti, che possono entrare in concorrenza con il diritto al cibo. Sarà necessario inoltre finanziare azioni innovative sul terreno per sostenere gli sforzi che i Paesi in via di sviluppo dovranno fare per adeguarsi alle politiche sul clima. Il futuro accordo dovrà essere coerente con l’Agenda per lo sviluppo sostenibile, approvata lo scorso settembre a New York: è essenziale mettere in atto strategie virtuose che combinino la tutela dell’ambiente con la sicurezza alimentare.
Qual è la posizione della Chiesa?
La Chiesa pone l’accento sullo sviluppo integrale della persona. Con l’enciclica “Laudato Si’” si è fatto un ulteriore passo in avanti verso un’ “ecologia integrale”: le sfide ambientali sono viste sempre di più nelle loro connessioni con quelle sociali. A Caritas ne siamo profondamente convinti: la lotta al cambiamento climatico accompagna e rafforza la lotta alla povertà. Un altro aspetto che la dottrina sociale della Chiesa cattolica mette in risalto è che “i gravi problemi ecologici richiedono un cambiamento di mentalità, che conduca all’adozione di nuovi stili di vita”. Non bastano, insomma, i grandi accordi internazionali fra i governi. La soluzione passa dal coinvolgimento dlla società a tutti i livelli, attraverso l’apertura di canali trasparenti di dilogo
CHI E’ ADRIANA OPROMOLLA
Adriana Opromolla, 41 anni, è Responsabile delle Politiche per la sicurezza alimentare ed i cambiamenti climatici di Caritas Internationalis. Avvocato, ha ricoperto numerosi incarichi a livello di Unione Europea, Corte europea dei diritti dell’uomo e Consiglio d’Europa sul tema dei diritti umani. È delegata a partecipare agli appuntamenti internazionali sui cambiamenti climatici. Il suo lavoro consiste nell’ascoltare e raccogliere input dalle Caritas di tutto il mondo su temi legati alla tutela dell’ambiente e la sicurezza alimentare, informare la confederazione Caritas Internazionalis e aiutarla a elaborare i propri messaggi nei confronti delle istituzioni, in modo da incidere sui processi decisionali e favorire così nuove politiche ambientali e sociali.