E dunque che ci faccio io, prete, in questo «tuffarsi nella lingua» che è la scuola? L’ho capito ieri grazie a un’intuizione sopraggiunta mentre in moto rientravo a Kompong Cham dal giro delle Messe
«Mi inginocchio
senza sapere perché
mi inginocchio sul letto
di notte
e mi fa lezione la nostalgia…», L. C. Candiani
Ormai da un mese abbiamo aperto il cantiere per la realizzazione della quarta scuola, a Kompong Cham in Cambogia. Si tratta di una scuola superiore corrispondente agli ultimi tre anni del liceo. Qui il sistema scolastico si struttura con sei anni di scuola elementare, tre di medie e tre di superiori, fino all’esame di maturità. Alle parrocchie della comunità pastorale “Maria, Madre presso la croce”, ai tanti cittadini di Somma Lombardo, mio paese natale, e ai tanti amici che mi sarebbe impossibile elencare, va il mio e nostro grazie perché nonostante la pandemia, hanno manifestato ed espresso l’ormai consueta, fedele, incoraggiante e benedicente vicinanza. Scrivo con consapevolezza e nostalgia di “vicinanza”, in controtendenza rispetto al raccomandato “distanziamento sociale”.
La nostra scuola dovrebbe aprire i suoi battenti il prossimo primo gennaio 2022, inizio del nuovo anno scolastico. Ci rimane tempo per completare l’edificio. La lista degli insegnanti è già pronta e a breve cominceremo a reclutare i primi studenti. Come le precedenti, anche questa quarta scuola poggia sulla presenza di alcuni ex-alunni della prima scuola, divenuti a loro volta insegnanti. In questo presente in cui siamo così tanto attaccati alla vita, la “nuda vita” non ci basta (1).
La scuola, forse l’unico avamposto di socialità rimasto, ha l’ardua vocazione di accompagnare quel processo che dalla “nuda vita”, preoccupata della propria autoconservazione e sopravvivenza, porta al desiderio di ciò che è altro da sé, i fratelli, le sorelle, la famiglia umana, fino a Dio che continuamente la crea.
Sappiamo quanto le nuove tecnologie possano trasformarsi da prezioso strumento di comunicazione a collettori di frustrazioni e godimento acefalo. In questo senso, il diuturno incontro dei nostri figli a scuola, fin da piccoli, dovrebbe rendere la loro vita più bella e più vera. Con il solo strumento “povero” della lingua, quando i piccoli si cimentano nell’imparare a leggere e scrivere. Meravigliosamente Daniel Pennac, nel raccontare la sua avventura di insegnante, parlava di un “bagno nel linguaggio” necessario ai suoi alunni per fare esperienza della propria provenienza, identità e destino: «Facendo imparare a memoria tanti testi ai miei allievi… li gettavo vivi nel grande fiume della lingua, quello che scorre lungo i secoli per venire a bussare alla nostra porta e attraversare la nostra casa». E ancora, parlando ad una madre, evocando la «sorgente orale delle Lettere» da cui proveniamo, diceva: «suo figlio vorrà sapere in quale lingua nuota, che cosa lo tiene a galla, lo disseta e lo nutre, e vorrà farsi lui stesso portatore di tale bellezza…, adorerà tuffarsi nella lingua, pescarvi i testi in profondità, e per tutta la vita saperli lì, costitutivi del suo essere, poterseli recitare all’improvviso, dirli a se stesso per sentire il sapore delle parole» (2). Ecco la scuola, un perdurante vis-à-vis tra di noi alla ricerca del «sapore massimo di ogni parola» (3).
E dunque che ci faccio io, prete, in questo «tuffarsi nella lingua» che è la scuola? L’ho capito ieri grazie a un’intuizione sopraggiunta mentre in moto rientravo dal giro delle Messe. L’intuizione ha a che fare con la mia verginità, con quel non avere famiglia, moglie, figli, per Dio e per il servizio al Suo popolo. Spesso in moto ne approfitto per pensare, un occhio alla strada e un occhio al Cielo. D’un tratto, in un preciso momento, ieri su quella strada e su quella moto, la mia verginità mi è apparsa come pienezza del desiderio e come suo compimento. Ho sentito la mia verginità, questo “non avere” ed essere solo, come una pienezza, un compimento del mio desiderio. Perché verginità quando è vissuta per Dio e con Dio, porta a questa pienezza di Lui e a desiderare solo Lui. Come se tutto di noi desiderasse tutto di Dio nel niente della nostra verginità. Io sto a scuola con questa nostalgia del Suo tutto nel mio niente. Ché se poi l’esperienza della verginità esige purezza e castità, ebbene questo non significa assenza di scorie (chi mai?), ma eccesso della Sua presenza e desiderio puro che Lui sia qui, ora. In questo senso c’è un’esperienza di verginità in ogni ambito e vocazione, come onestà e lealtà ultime verso se stessi.
Ho trovato ancora una volta in Chandra Candiani dei versi folgoranti che, forse a sua insaputa, fanno della mia verginità vissuta a scuola il modo per raggiungere quel sapore massimo attraverso il battesimo di ogni parola. «Che io possa morire all’aperto – scrive Chandra – imitando gli alberi inchinàti al cielo … ascoltando le sillabe del vento …». E «non lasciare da solo niente… mentre la leggera grazia / battezza le parole tutte / e le creature si risvegliano…» (4).
Ho la sensazione ormai che io stia facendo di più con questa mia verginità/niente come desiderio puro di Dio/Tutto, che non con la mia forza o con le mie mani. Sento inoltre che quella grazia che già «battezza le parole tutte» porterà anche alle creature tutte lo stesso battesimo. Per questo mi inginocchio, la notte, abbracciando il niente della mia verginità. Desiderando il Tutto di Dio.
1. Per l’approfondimento leggi qui
2. D. Pennac, Diario di scuola, Milano 2007, 123-125.
3. C. Campo, La tigre assenza, Adelphi, Milano 1991, 290.
4. L. C. Candiani, La domanda della sete, Torino 2020, 95.