La pandemia ha impedito in questi mesi a due seminaristi del Pime del Bangladesh di aggregarsi al seminario di Monza. Ma a Dhaka hanno vissuto comunque l’anno di spiritualità e compiuto il primo passo solenne, manifestando pubblicamente la propria volontà di diventare missionari a vita. Padre Franco Cagnasso racconta le storie di questi due giovani
Le loro storie sono diverse. Entrambi hanno uno stile sobrio, di poche parole, con un po’ di timidezza, ma non chiuso; ora hanno in comune anche una promessa pronunciata insieme.
Tijes Mri appartiene alla popolazione Mandi. È diffusa specialmente nel nord est del Bangladesh e al di là del confine, in India; ha un alto numero di immigrati in città; è quasi completamente di religione cristiana: cattolici, battisti, anglicani… Ha una cultura e una organizzazione sociale “matrilineare”: i figli prendono il cognome della mamma, è il marito, non la moglie che dopo il matrimonio si trasferisce nella casa dei suoceri, l’eredità è in gran parte destinata alle figlie…
I Mandi sono stati evangelizzati soprattutto dai missionari americani della Santa Croce. Il Pime non ha mai operato nelle loro zone, e Tijes non ci conosceva. Ci ha incontrati grazie ad un amico, pure lui Mandi, che era venuto a studiare e lavorare a Dhaka e gli parlò con soddisfazione del “Samuel Program”. È una serie di incontri che – coinvolgendo suore e preti di diversi istituti – il Pime da anni organizza per ragazze e ragazzi che, dopo il liceo, vogliono riflettere e pregare sulla loro vocazione, in vista di una scelta matura. Tijes abitava lontano, presso uno zio che lo ospitava per permettergli di studiare al College della cittadina dove risiedeva, e da lui aveva imparato un metodo di preghiera contemplativa che gli piaceva e praticava fedelmente. Ora il “Samuel Program” lo attraeva, e si impegnò a partecipare, incoraggiato dallo zio che vedeva di buon occhio la sua ricerca vocazionale. Risparmiava al centesimo per poter partecipare agli incontri, dove interveniva sempre con poche parole, ma molto a proposito. Trascorse anche qualche mese nella nostra comunità formativa, mentre preparava l’esame finale del College, e questo tempo aiutò ad aumentare la confidenza reciproca fra lui e i missionari, che lo presentarono al seminario filosofico nazionale come “candidato del Pime” verso la strada della missione a vita.
Shaon Caesar, come dice il cognome – che è “Rosario” – appartiene ad una famiglia discendente di bengalesi diventati cristiani alcuni secoli fa per influsso di commercianti e missionari portoghesi. Un gruppo di loro, all’inizio del secolo scorso, lasciò l’area di Dhaka spostandosi al di là del Brahmaputra, dove trovarono terre coltivabili a prezzi accessibili, e fondarono alcuni villaggi con popolazione cristiana. Fra questi, anche Borni, dove il Pime fondò la missione di Mariabad, e dove Shaon nacque. Ha respirato dunque aria di Pime fin da piccolo; la sua famiglia fu in buoni rapporti con parecchi nostri missionari, fra cui p. Luigi Pinos, e ne ha un ottimo ricordo. In realtà, lui – giovane – non li può ricordare, ma fin da piccolo si è sentito attratto da ciò che vedeva e che sentiva di loro. Lo attirava molto il loro “andare verso” la gente, e l’idea che fossero venuti da lontano per parlare di Gesù. Voleva essere “come loro”, ma fu consigliato di entrare nel seminario diocesano, dove completò bene il College, e dove con molta prudenza e qualche timore continuò a chiedersi se e come passare al Pime. Mentre studiava filosofia – compagno di classe di Tijes – la decisione maturò e alla fine del biennio il “salto” avvenne, con permesso e benedizione del vescovo.
Così per Tijes e per Shaon arrivò il momento di continuare la formazione in Italia, con l’anno di studio della lingua e poi il periodo di spiritualità. I superiori li accolsero, ma eravamo nel 2020, e in piena pandemia non fu possibile partire. “Pazienza – si sentirono dire – se non potete venire, ci organizziamo lì da voi!”.
Rimasero nella nostra comunità di Dhaka, con un programma sviluppato per loro da p. Rapacioli, p. Brice, p. Parolari e dal sottoscritto: quattro “professori” per due alunni… non c’è male!
Infatti, andò bene. Ecco perché lo scorso 11 giugno, dopo vari rinvii dovuti alle restrizioni di movimento che il governo continuava a rinnovare, è stata organizzata la celebrazione della “promessa”. Si è fatta nella chiesa di santa Cristina, la prima parrocchia fondata dal Pime nell’area di Dhaka, e passata da tempo sotto la responsabilità del clero locale. Per seguire la regola anti-virus, gli invitati erano pochi, ma i genitori di entrambi, Tijes e Shaon, con qualche fatica in più sono riusciti a venire, insieme ad alcuni altri famigliari, – contenti. I due hanno ricevuto la “veste” bianca, segno del loro cammino formativo verso il presbiterato, e hanno pronunciato la “promessa”. Di che cosa?
Prima di tutto hanno espresso la volontà chiara di diventare missionari del Pime a vita, e poi hanno promesso di impegnarsi a fondo per seguire bene la preparazione, nell’istituto e con la guida dell’Istituto. La formazione li accompagnerà alla “promessa definitiva” di essere missionari di Cristo, nel e con il Pime, per sempre.
Come delegato del Superiore generale, la promessa è stata accolta e tutta la celebrazione è stata presieduta da p. Brice Tambo, missionario camerunese in Bangladesh, che indossava la bella casula ricevuta in dono anni fa per la sua prima Messa, ricca di simboli africani: il Pime del futuro sta arrivando…
Ora i due, diventati amici, andranno in Italia per continuare a Monza il loro cammino; con loro dovrebbero andare altri quattro, che nel frattempo hanno finito il biennio filosofico nel seminario nazionale. E se di nuovo il Covid 19 metterà il bastone fra le ruote? Niente paura: una via per andare avanti – e andare avanti bene – si troverà!