Venticinque anni fa moriva padre Augusto Gianola, missionario votato ai caboclos dell’Amazzonia brasiliana e “stregato” dalla natura estrema. Uomo amatissimo dal popolo, all’incessante ricerca di Dio
Un giorno, alle tre del mattino, all’insaputa di tutti, si mette sul Rio delle Amazzoni in canoa, solo, percorrendo 1.400 chilometri a remo, affrontando tempeste e onde, pali “danzanti” (così li definisce), rocce, fermandosi nelle comunità sul percorso. A Recife prende l’aereo per Lisbona e di lì, altri 1.200 chilometri, questa volta a piedi, passando per Fatima, continuando in Spagna fino a Lourdes. Mangiando quello che trova, approfittando dell’ospitalità quando gli è offerta (raramente dai preti e religiosi: ha un aspetto poco sacerdotale, ma piuttosto da barbone), dormendo spesso nei campi o sotto i ponti. Arrivato a Lourdes canta: ha compiuto la promessa di andare dalla Madonna.
Questo è padre Augusto Gianola, missionario del Pime in Amazzonia, di cui il 24 luglio ricorrono i 25 anni dalla morte. Sacerdote impossibile da inquadrare, uomo dell’avventura, come si definisce: «Se Dio mi ha dotato di questo senso dell’Avventura, è perché attraverso di quello vuole che io arrivi a lui (…). Non posso castrarmi per seguire il Signore – continua col suo linguaggio senza fronzoli -, non posso essere prudente e calcolato. Il mio modo di servire il Signore è secondo la mia natura: avventuroso». Ma un’avventura estremamente seria e soprattutto segnata da una ricerca di Dio incessante e, agli occhi di altri, addirittura sconcertante.
È uno scalatore di altissimo livello, sia sui monti di Lecco, nei cui pressi è nato nel 1930, come su molti altri dell’Italia settentrionale, aprendo nuove vie. Sua specialità sono le ascensioni notturne in solitaria; mentre arrampica, prega. Ricordo di averlo sentito raccontare per ore della montagna, lui abbastanza rude: era diventato un poeta, come un innamorato della sua donna.
Entra nel seminario di Milano ed è ordinato prete nel 1953. Dopo una decina d’anni come coadiutore in una parrocchia della diocesi, l’arcivescovo, il cardinale Montini, cede alle sue insistenze di realizzare la sua vocazione missionaria e lo lascia entrare nel Pime. Sogna la Birmania con le sue montagne e invece è mandato a Parintins, nell’Amazzonia brasiliana, «la pianura più… piatta del mondo». «Avrei dovuto occuparmi della gente che viveva sparsa lungo le sponde del rio delle Amazzoni. Subito la sentii come la nuova, grande sfida: sarei diventato un grande navigatore», commenta. Dotato di un fisico e un coraggio fuori del comune, diviene un dominatore di quella natura, conoscendone tutti i segreti, viaggiando in canoa, nuotando nei fiumi abitati dai coccodrilli e dai piranha, percorsi da tronchi galleggianti, cosa che i caboclos (gli abitanti della regione) mai si sognerebbero di fare.
Nei primi dieci anni padre Augusto lavora nella parrocchia della cattedrale, ricevendo incarichi di fiducia da parte del vescovo, monsignor Arcangelo Cerqua, che lo stima molto e ne è ricambiato pur nella diversità della loro visione pastorale: gli sono stati affidati i giovani e i movimenti laicali della diocesi. Ma soprattutto costituisce una trentina di comunità, riunendo i caboclos che vivevano isolati lungo i fiumi ed erano vittime dello sfruttamento dei fazendeiros (i proprietari). Ha una creatività straordinaria di iniziative, anche se spesso ne lascia ad altri la continuazione concreta. Per il suo carattere radicale non si trova in accordo con l’impostazione della diocesi, critica gli altri missionari perché – secondo lui – ricchi e staccati dal popolo, ma assume a volte atteggiamenti contraddittori e persino estremi, come notano i suoi compagni. Mitici sono rimasti i suoi scherzi, sia ai confratelli che alla gente, alle volte molto pesanti e non capiti. Un esempio: durante il congresso eucaristico diocesano si arrampica sulla croce elevata nella piazza, alta sedici metri, e rimane lassù durante tutta la Messa. Ma il popolo lo ama: «Per me la sua qualità fondamentale era questa: voleva bene alle persone – testimonia padre Giovanni Andena -. Il popolo era contento di lui. La gente ha un fiuto speciale per capire chi le vuol bene. Questo il grande segreto del suo successo».
Nel 1973 va in Italia per le vacanze, ma al ritorno non se la sente di continuare a «fare il prete come l’avevo fatto fino a quel momento», confessa. Per circa un anno si ritira nella foresta, prima con Cícero, un uomo che da diciassette anni viveva là solo. Dopo dieci mesi, però, lo lascia e si addentra maggiormente senza nessun compagno, nel suo “eremo”, il Paratucù. Una vita durissima, in una capanna, a contatto diretto con la natura, nella preghiera, alla ricerca di Dio: «Io ho bisogno di un Dio che sta solo a due o tre metri, quattro al massimo, davanti a me, facile a vedersi, a misurarsi, a contemplarsi. Oh, Dio, fatti un po’ più piccolo e più vicino!». Cerca la penitenza: malaria, punture le più varie e dolorose, mangia carne e pesce putridi (non ha frigorifero…). Il suo fisico eccezionale supera tutte le difficoltà. Dopo tre mesi decide di rientrare fra gli uomini: nella permanenza nella foresta ha perso quaranta chili.
Ha capito che la solitudine non è la sua vocazione: «Ho vissuto l’avventura della libertà fino ai limiti estremi… Cercherò di mantenerla come riserva e di portarmene un po’ anche là fuori», scrive nell’ultimo giorno a Paratucù. «Non ne ho il diritto, quando altri milioni di amici non la possono godere come me». Va a Urucarà, nella diocesi di Itacoatiara, confinante con Parintins. Per dieci anni si dedica alle colonie, comunità agricole, diverse dalle precedenti, perché dotate dei titoli di proprietà. All’inizio con l’aiuto di volontari venuti dall’estero, che se ne sono andati a poco a poco, per lasciare la responsabilità in mano ai caboclos. Un lavoro non solo sociale, ma anche fondato sulla Parola di Dio e la preghiera. L’elemento forse più importante è stata la creazione di una scuola agricola, che ha evitato il pericolo della fuga dei giovani verso la città.
Ma il fascino della foresta si fa sentire di nuovo. Dopo l’avventuroso viaggio in Italia, nel 1986, torna a Paratucù per circa tre anni, sempre nell’appassionata ricerca di Dio. Ma alla fine decide di tentare l’«avventura del prossimo», mettendosi nelle mani del superiore e tornando a Parintins. In precedenza aveva scoperto di aver contratto la lebbra, dalla quale guarisce totalmente.
Viene invece colpito da un tumore al cervello, e rientra in Italia. Al Paratucù aveva scritto nel suo diario: «Chiedo al mio Signore Gesù che questo secondo anno di solitudine sia l’anno del nostro amore. Prima di finire l’anno, mio Dio, fa che possa gustare una briciolina, solo una briciolina del tuo amore. Cioè del mio amore per te». Sulla sua tomba è stata messa una scritta in portoghese, composta da lui stesso: «Sono felice perché vado a vedere in pienezza Colui che ho tanto cercato».