Rifugiati alle Olimpiadi, il sogno oltre il Covid

Rifugiati alle Olimpiadi, il sogno oltre il Covid

Dopo il debutto di cinque anni fa all’edizione di Rio de Janeiro, ai travagliati Giochi di Tokyo sono attesi 29 Atleti Olimpici Rifugiati, fuggiti da 11 diversi Paesi. Questa volta competeranno in 12 sport con qualche speranza di medaglia in più. Ma per arrivare a giocarsela dovranno superare un ultimo ostacolo: la positività di un accompagnatore emersa a Doha, dove la squadra si era radunata per il viaggio verso il Giappone

 

Si sono lasciati alla spalle guerre e calamità per inseguire un sogno. E adesso – come tutte le altre nazionali – fanno i conti anche con lo spauracchio del Covid-19. Ma per i 29 rifugiati che fanno parte della squadra attesa alle Olimpiadi di Tokyo poter scendere in campo in questi tormentati Giochi ha un significato ancora più importante.

Introdotta all’edizione di Rio 2016, la squadra degli Atleti Olimpici Rifugiati è diventata fin da subito un simbolo di speranza per quanti sono stati costretti a fuggire dal proprio Paese. Una presenza che fa conoscere al mondo le storie di questi atleti e accende i riflettori sulle crisi internazionali che costringono migliaia di persone a scappare dal proprio Paese, oggi anche con tutte le conseguenze della pandemia.

Quest’anno il team dei rifugiati si è notevolmente ampliato rispetto al suo esordio olimpico: a Rio erano arrivati solo 10 atleti in 3 diverse discipline a confronto dei 29 di oggi – 20 uomini e 9 donne – che gareggeranno in 12 sport diversi. Attualmente si trovano ancora in ritiro a Doha, dove purtroppo un componente dello staff al loro seguito è risultato positivo al Covid-19. Ma la speranza di tutti è che nei prossimi giorni almeno gli atleti possano partire regolarmente per Tokyo.

I componenti della squadra sono originari di 11 Paesi differenti, accomunati da storie significative su come lo sport sia stato per loro motivo di rinascita e di speranza per vivere una nuova vita lontano da guerre e violenze. Tra di loro spicca la storia di Abdullah Sediqi, originario dell’Afghanistan. Abdullah pratica taekwondo fin da bambino, ma temendo per la sua vita dopo le minacce ricevute a causa della sua abilità sportiva, è stato costretto a fuggire in Belgio quattro anni fa. La sua partenza è stata pure l’ultima volta in cui ha visto sua mamma, morta di coronavirus sei mesi fa.

Dal taekwondo arriva anche la più grande ambizione di medaglia per la squadra dei rifugiati: Dina Pouryounes Langeroudi è la numero 4 nella classifica mondiale ed è tra le favorite per il successo nella categoria fino ai 46kg. In caso di podio diventerebbe la prima storica medaglia per il gruppo degli atleti rifugiati. Guardando i suoi successi, è difficile credere che sei anni fa fosse una senzatetto. Dina è stata costretta a fuggire dall’Iran nel 2015, ma continua la sua carriera sportiva come atleta di taekwondo nella sua nuova casa in Olanda.

Sempre tra le arti marziali alle Olimpiadi di Tokyo ci sarà l’esordio del Karate come disciplina olimpica e ne è molto contento Hamoon Derafshipour, medaglia di bronzo nel kumite ai Mondiali 2018 di Madrid, dove però rappresentava l’Iran. In una competizione internazionale ha incontrato Samira Malekipour medaglia di bronzo ai Giochi Asiatici 2010 e allenatrice della nazionale femminile iraniana. La coppia si è innamorata e ha aperto un’accademia di karate nella loro città natale alla fine del 2017. Nell’ottobre 2019, Hamoon ha preso la difficile decisione di lasciare l’Iran e i 400 studenti dell’accademia per trasferirsi a Waterloo in Ontario. La coppia è stata accolta nella comunità locale e ora la sua allenatrice è proprio la compagna.

Il sostegno del partner è stato fondamentale anche per Sanda Aldas, judoka siriana che ha deciso di fuggire da Damasco e dalla guerra in Siria nel 2015, lasciando suo marito e allenatore Fadi Darwish con il loro giovane figlio. All’arrivo nei Paesi Bassi, ha trascorso nove mesi in un campo profughi; oggi vive nella periferia di Amsterdam con suo marito (che alla fine ha potuto raggiungerla) e tre bambini ed è pronta a vivere con loro la sua avventura olimpica.

Per alcuni atleti non è stato semplice poter gareggiare e mostrare al mondo il proprio talento. Emblematica la storia di Tachlowini Gabriyesos che ha lasciato l’Eritrea a soli 12 anni percorrendo a piedi il deserto per raggiungere Israele attraversando il Sudan e l’Egitto. Era già stato selezionato nel team degli atleti rifugiati per i campionati mondiali di atletica leggera di Doha nel 2019, ma in quell’occasione Tachlowini subì un grave contrattempo ancora prima di arrivare: durante uno scalo aereo ad Istanbul, a causa di un problema con il visto, rimase bloccato all’aeroporto turco per 27 ore. Anche nel 2020 avrebbe dovuto rappresentare il team degli Atleti Rifugiati nei Campionati del Mondo a Gdynia; ma, ancora una volta, i problemi con il visto gli hanno impedito di viaggiare. Il giovane eritreo ha saputo però riscattarsi tre mesi dopo, alla maratona all’Hula Lake Park in Israele: il suo tempo di 2 ore 10 minuti 55 secondi lo ha fatto diventare il primo atleta rifugiato a correre in un tempo che gli consente di ottenere la qualificazione diretta alle Olimpiadi. E a rendere questo tempo ancora più significativo è il fatto che si trattava della sua seconda maratona ufficiale in carriera.

In modo decisamente diverso è andata per il canoista Saeid Fazloula. Già medaglia d’argento agli Asian Games del 2014, è stato costretto a fuggire dall’Iran nel 2015, rischiando tutto sulla rotta balcanica verso la Germania. Per lui la Federazione Internazionale di Canoa ha accettato di modificare il proprio regolamento: prima di Fazloula, infatti, non esistevano regole che consentissero agli atleti che hanno dovuto lasciare il proprio Paese per motivi politici o religiosi di prendere parte agli eventi. Fazloula ha dovuto lasciare la sua famiglia in Iran, ma ne ha trovata una nuova al club di canoa e kayak Rheinbrüder Karlsruhe che ha reso realtà la sua partecipazione a Tokyo.

Anche nella squadra dei rifugiati non mancano delle riconferme: a Tokyo sarà ancora presente la portabandiera di Rio 2016 Rose Nathike Lokonyen, atleta del Sud Sudan, che punta a migliorare il suo settimo posto ottenuto nelle batterie degli 800m. Non sarà un’impresa facile dato che – a causa del lockdown – Nathike è dovuta tornare nel campo profughi di Kakuma in Kenya (che ospita quasi 200.000 rifugiati) dopo che il suo centro di allenamento ha ricevuto l’ordine di chiudere.

Ci sarà anche Yusra Mardini nuotatrice siriana e ora residente in Germania che è stata sotto i riflettori dopo aver vinto la sua batteria dei 100m farfalla a Rio. Nel 2015 prese la decisione di partire dalla Siria fuggendo in Turchia per poi imbarcarsi verso la Grecia. Durante il tragitto la barca iniziò ad affondare e Yusra e sua sorella furono costrette a spingere in mare aperto la barca in avaria. Alla fine, Yusra e sua sorella sono arrivate a Berlino, dove hanno ricostruito la loro vita da rifugiate.

Riconferma anche per Paulo Amotun Lokoro e Anjelina Nadai Lohalith entrambi fuggiti in Kenya in seguito alla guerra civile in Sud Sudan. Tutti e due a Rio non sono riusciti a superare il primo turno della gara di atletica dei 1500m. Anjelina dopo Rio è diventata madre e ha viaggiato in Uganda e Canada dove ha anche partecipato al One Young World Summit di Ottawa, un forum globale per leader giovanili che discutono di questioni globali.