Nelle paludi mesopotamiche gli uomini vivono in simbiosi con l’acqua da cinquemila anni. Ma questo tesoro di biodiversità oggi è a rischio: «Siamo in piena emergenza idrica», afferma l’attivista Ali Alkarkhi
A Chibayish, 400 chilometri a sud della capitale irachena Baghdad, le acque che si insinuano tra i canneti sono punteggiate di mashuf, le affusolate canoe che qui costituiscono il mezzo di trasporto per eccellenza. Tra le paludi si pesca, si cacciano uccelli e anatre, si coltiva il riso, si allevano gli animali. Un paradiso di biodiversità che ospita specie rare come l’ibis sacro e in cui trovano riposo gli stormi lungo la loro migrazione tra la Siberia e l’Africa. Non a caso la tradizione vuole che l’Ahwar iracheno, circa ottomila chilometri quadrati di acquitrini nel cuore della Mesopotamia dove il Tigri e l’Eufrate scorrono portando vita prima di gettarsi insieme nello Shatt al-’Arab, corrispondesse al biblico Giardino dell’Eden.
Nel 2016 l’Unesco ha inserito l’area, insieme ai resti archeologici delle città mesopotamiche di Ur, Eridu e Uruk, tra i siti patrimonio dell’umanità. «Ma questo ecosistema unico, dove da cinquemila anni il popolo ma’dan vive in simbiosi con gli elementi naturali, è oggi in pericolo». Ali Alkarkhi, giovane attivista fondatore dell’associazione Humat Dijlah (“Protettori del Tigri”), rilancia l’allarme degli organismi internazionali, secondo cui la crescente scarsità d’acqua rappresenta una minaccia gravissima per questo habitat eccezionale e per le 130 mila persone che ancora ci vivono.
«I cosiddetti “arabi delle paludi” sono la prima comunità autoctona della regione e hanno conservato nel tempo un sistema economico-sociale basato proprio sull’abbondanza di risorse idriche», spiega Alkarkhi. «Un equilibrio spezzato ai tempi di Saddam Hussein, che nel 1991 ordinò il prosciugamento delle zone umide come ritorsione contro gli abitanti accusati di offrire rifugio ai combattenti ribelli: oltre centomila persone furono obbligate a emigrare».
Dopo la caduta del regime, nel 2003, il governo di transizione compì grossi sforzi per ridare vita all’area, abbattendo le dighe e i canali che erano stati costruiti lungo il corso dei fiumi. Ma se da una parte l’ecosistema necessita di tempi lunghi per riprendersi, dall’altra chi negli scorsi decenni si era trasferito in città spesso oggi rinuncia a fare ritorno in un contesto precario, dove i servizi scarseggiano e le nuove generazioni faticano a intravvedere prospettive professionali. Mentre altre gravi minacce incombono sull’Ahwar.
«In questi anni i Paesi confinanti hanno costruito alcune grandi dighe sui corsi d’acqua che scorrono nel loro territorio prima di raggiungere l’Iraq: pensiamo solo alla struttura di Ilisu, eretta dalla Turchia lungo il Tigri, o a quella iraniana di Daryan sul Sirwan, che hanno avuto un impatto pesante sulla portata dei due fiumi», spiega Ali. «I governi iracheni, da parte loro, non hanno mai promosso politiche idriche adeguate, le amministrazioni locali sono inefficienti mentre la popolazione continua a usare tecniche di irrigazione insostenibili. Uno scenario aggravato dal riscaldamento globale, che determina siccità sempre più frequenti e una crescente salinizzazione del terreno».
L’Onu classifica l’Iraq come il quinto Paese più vulnerabile al mondo ai cambiamenti climatici. E così le comunità locali, di cui fanno parte anche i mandei, seguaci di un antichissimo credo gnostico i cui riti tradizionali sono strettamente legati proprio all’abbondanza d’acqua, lottano ogni giorno per non abbandonare le loro terre.
«Qui lo stile di vita dipende in tutto dalle paludi», racconta il giovane attivista. «L’economia locale gira intorno all’allevamento di una specie autoctona di bufali, che garantisce la carne e il latte, usato per produrre il tipico formaggio guemar, ma di cui si utilizzano anche le corna, la pelle, persino gli escrementi come combustibile per la cucina. E questi animali, che rappresentano la moneta dell’Ahwar, non sopravvivono se non c’è una sufficiente disponibilità idrica».
Sull’acqua i ma’dan vivono, visto che le loro abitazioni tipiche sono i mudhif, spaziose case di canne intrecciate sapientemente, erette su minuscole isole circondate dalle paludi. «Per spostarsi, è necessario usare le barche: le canoe servono per andare al mercato, a scuola, dal dottore… Non ci sono strade su cui le automobili possano raggiungere questi centri, quindi in caso di siccità le comunità restano isolate anche per mesi. E il nostro timore è che, con il cambiamento climatico, l’emergenza diventi la norma».
Per questo gli attivisti di Humat Dijlah, che operano in sedici città irachene e coinvolgono circa quattrocento volontari impegnati a promuovere una coscienza ambientale a livello di base, hanno deciso di lanciare alcuni programmi specifici per la regione delle paludi. «Ci muoviamo su più livelli», spiega Alkarkhi. «Da una parte sosteniamo l’applicazione della legge che alcuni anni fa ha istituito la polizia ambientale e quella dei fiumi per monitorare abitudini dannose quali la caccia e la pesca intensive o con metodi pericolosi per l’ecosistema, ma anche il drenaggio illegale per l’agricoltura. Parallelamente, formiamo le comunità al monitoraggio ambientale e alla documentazione delle violazioni, grazie a foto e video girati con il cellulare, oltre a spingerle a passare dalla tradizionale irrigazione per sommersione, insostenibile, a quella a goccia. C’è poi l’azione di advocacy nei confronti dell’amministrazione locale sulla gestione delle risorse idriche e sul trattamento dei liquami, che oggi finiscono direttamente nelle paludi».
In un Paese in cui il 70% dei rifiuti industriali viene scaricato nei fiumi o nel mare, le acque reflue versate negli acquitrini causano inquinamento e una concentrazione di metalli pesanti che, attraverso la flora e la fauna, minacciano anche gli abitanti. Senza contare che il deterioramento ambientale – con i miasmi che infestano l’aria delle rive dove le famiglie in gita arrostiscono il pesce appena pescato – rappresenta uno dei fattori che scoraggiano la ripresa del turismo locale: una sfida cruciale per garantire un futuro a questo angolo della Mezzaluna fertile. Proprio la valorizzazione dell’Ahwar come meta di villeggiatura, principalmente nazionale, è al centro del progetto Sumereen, promosso dalla ong italiana Un Ponte Per con la collaborazione di associazioni locali come la stessa Humat Dijlah e il finanziamento del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo.
L’intervento, nel Governatorato di Dhi Qar, punta a «promuovere la crescita economica e insieme preservare il patrimonio culturale, offrendo soprattutto ai giovani e alle donne opportunità di formazione e lavoro nel settore dell’ecoturismo», ha spiegato il referente di Un Ponte Per Raed Mikhael. Attraverso piccole cooperative nasceranno un villaggio ecologico a Chibayish, una fabbrica di barche tradizionali, botteghe di artigianato e di souvenir. Previsti anche eventi artistici e culturali. «La speranza è che il giro di visitatori generi reddito per i residenti, rendendoli sempre più indipendenti dagli aiuti esterni».
A fianco delle iniziative locali, tuttavia, fondamentali restano gli sforzi del governo centrale. «In questi decenni, martoriati da guerre e terrorismo, la tutela ambientale e la gestione delle risorse idriche sono sempre rimaste in fondo all’agenda dei successivi esecutivi, mentre oggi dovrebbero costituire una priorità assoluta», afferma Ali Alkarkhi. «Soprattutto, il governo iracheno deve impegnarsi in negoziati seri con i Paesi vicini per reclamare il diritto all’acqua di tutti gli abitanti dell’area. Non si tratta di una questione nazionale, ma regionale: anche se si estende su quattro Stati diversi, infatti, la Mesopotamia rappresenta un’unica entità dal punto di vista ecologico: dall’emergenza idrica possiamo uscire soltanto tutti insieme». MM
Acqua contesa
In Medio Oriente, dove il 6,3% della popolazione mondiale ha a disposizione solo l’1,4% delle riserve d’acqua, entro il 2050 le piogge sono destinate a diminuire del 40%. Bastano questi dati per capire come l’accesso alle risorse idriche sia per la regione un fattore strategico, sempre più spesso all’origine di tensioni tra Paesi confinanti, oltre che di rivolte popolari contro i governi locali. Tra le dispute più calde quella tra l’Iraq e i vicini Turchia, Iran e Siria per lo sfruttamento dei fiumi condivisi, mentre l’acqua resta al centro del conflitto tra Palestina e Israele e delle relazioni tra Stato ebraico e Giordania.