L’ultima guerra con Israele ha aggravato una situazione già estrema :«I bimbi sono traumatizzati, noi piantiamo semi di tolleranza», dice suor Nabila Saleh, che dirige la più grande scuola privata della Striscia
La Rosary Sisters School di Tel al-Hawa, nel cuore di Gaza City, risuona ogni mattina delle voci dei suoi allievi che, durante la ricreazione, giocano, chiacchierano, si confrontano sui risultati dell’ultimo compito in classe. È tutto come in una normale, grande scuola di qualunque altra parte del mondo, se non fosse che, per i 1.140 studenti di questo istituto gestito da suore cattoliche arabe nella Striscia governata dall’organizzazione islamista di Hamas, la normalità è fatta di conflitti, privazioni, difficoltà materiali e traumi psicologici costanti.
«I ragazzi che si sono diplomati l’anno scorso hanno già vissuto quattro guerre nella loro breve esistenza!». Va dritta al punto suor Nabila Saleh, energica direttrice della rinomata struttura frequentata da bambini e adolescenti dall’asilo alle superiori, che per inciso sono quasi tutti musulmani, visti i numeri sempre più esigui della comunità cristiana in questo pezzo martoriato di Palestina. Nei pesanti scontri dello scorso maggio con Israele, le bombe non hanno risparmiato la scuola delle suore, che sorge vicino a una postazione militare di Hamas: ingenti i danni, anche se per fortuna non ci sono state vittime né feriti. «È stata un’esperienza terribile, per giorni non abbiamo dormito dalla paura e le conseguenze materiali dell’attacco sono ancora pesanti: le lezioni sono iniziate con alcune settimane di ritardo e abbiamo elettricità solo quattro ore al giorno, visto che i pannelli solari sono rimasti distrutti, mentre l’arrivo della stagione invernale non farà che peggiorare la situazione», racconta la religiosa egiziana arrivata per la prima volta a Gaza nel 2008 per dirigere l’asilo inaugurato nel 2000 e intitolato alla figlia di Yasser Arafat, Zahwa, una delle prime bambine ad averlo frequentato. «Era stato proprio il presidente dell’Autorità nazionale palestinese a donarci il terreno per costruire una scuola qui. Stimava le Rosary Sisters ed era convinto che avremmo potuto contribuire allo sviluppo della Striscia».
Una fiducia che non sorprende, visto che la congregazione fondata nel 1880 dalla suora palestinese Marie Alphonsine Danil Ghattas, canonizzata nel 2015, ha la vocazione di emancipare i giovani – e in particolare le ragazze – a partire dall’istruzione, rispettando la sensibilità culturale della regione: le Suore del Santo Rosario, per statuto, accolgono solo postulanti di origine araba.
Se in questi anni l’impegno educativo delle religiose cattoliche non ha tradito le aspettative, tanto che l’ottima reputazione della scuola ha spinto diversi membri dell’establishment a iscriverci i loro figli, la situazione a Gaza non ha fatto che peggiorare, in seguito allo scontro tra fazioni palestinesi culminato con l’ascesa al potere di Hamas nel 2007, con il conseguente scontro aperto con Israele. Il riaccendersi del conflitto lo scorso maggio ha solo aggravato i problemi che già di norma condizionano la vita quotidiana della gente: un’economia strangolata dall’embargo, una disoccupazione che supera il 50%, l’allarmante carenza di acqua potabile e beni di prima necessità. «Mancano persino i farmaci negli ospedali», conferma suor Nabila. «Anche la ricostruzione degli edifici distrutti nell’ultima guerra va a rilento, perché non è ancora stato raggiunto un accordo politico che permetta di fare arrivare a destinazioni gli aiuti promessi dalla comunità internazionale. Il Covid? Sì, c’è, ma sinceramente oggi questa è l’ultima preoccupazione della gente…».
Una situazione estrema in cui i più piccoli sono quelli che soffrono maggiormente. La direttrice di quella che è oggi la più grande scuola privata della Striscia e le sue consorelle – nel convento di Tel al-Hawa vivono anche le giordane suor Martina e suor Bertilla – sono testimoni ogni giorno del trauma vissuto dagli allievi: «Quasi tutti gli studenti hanno un problema di aggressività repressa, noi lavoriamo molto per sostenerli dal punto di vista psicologico, con l’aiuto di una specialista interna che guida programmi ad hoc. Ma è un’impresa difficile, anche perché è fondamentale che le famiglie portino avanti percorsi simili nel contesto extrascolastico, e non tutte si trovano nelle condizioni di farlo».
Facile comprendere perché già da adolescenti questi ragazzi, la cui breve vita è stata tutta costretta negli angusti confini della Striscia, con rare eccezioni, sognino di andarsene via. «Qualcuno ci riesce, magari grazie a borse di studio ottenute da università straniere. Altri continuano gli studi qua, ma poi all’80% non trovano un lavoro», racconta la religiosa. «Ancora oggi, purtroppo, la maggioranza dei ragazzi, soprattutto quelli che vivono fuori da Gaza City, a Rafah o nei villaggi dove peraltro la cultura patriarcale resta dominante, ha come orizzonte il matrimonio in età precocissima, 14-15 anni, e una vita di sussistenza. Per questo il nostro ruolo è ancora più importante: educhiamo gli studenti ad aprire la mente e ad accettare la diversità, in un contesto spaventosamente chiuso».
Il clima asfittico e intransigente promosso dalle autorità locali rende particolarmente complicata la vita dei pochissimi cristiani: «Molti di loro, ai tempi in cui governava Fatah, lavoravano nell’amministrazione pubblica. Poi con l’arrivo di Hamas tutto è cambiato: numerose famiglie, in particolare le più abbienti, hanno venduto le proprietà e lasciato il Paese. Da una comunità che contava circa novemila persone, oggi non arriviamo a mille! Trovare un impiego è difficile: il patriarcato latino promuove progetti per sostenere l’occupazione attraverso appositi registri parrocchiali dei professionisti, ma si tratta sempre di soluzioni parziali».
E com’è, in un contesto del genere, la vita per una suora? «Bisogna essere decise e un po’ coraggiose!», sorride la religiosa 43enne. «Mi capita che, quando vado al mercato, qualcuno mi gridi che sono un’infedele e una volta una donna ha cercato di strapparmi il crocifisso dal collo. Più spesso, semplicemente, le persone mostrano stupore e curiosità di fronte a una consacrata. Mi dicono: “Non sei sposata? Non hai figli? Che peccato!”. È una cosa impensabile per la cultura musulmana locale. Eppure, attraverso le relazioni quotidiane con studenti e famiglie e soprattutto grazie al nostro lavoro educativo, stiamo cambiando le cose». In effetti, molti passi in avanti sono stati fatti da quando – era il 2007 – nel contesto di un’atmosfera tesissima anche tra le diverse fazioni islamiste di Gaza, qualcuno piazzò una bomba proprio davanti alla porta del convento. «Per fortuna scoppiò solo a metà e ci salvammo… ma fu uno shock».
Oggi, alla Rosary Sisters School, la convivenza serena tra cristiani e musulmani è vita quotidiana, che non stupisce nessuno. «Ovvio che i genitori che iscrivono i loro figli da noi hanno generalmente una mentalità abbastanza aperta, ma abbiamo anche alcune famiglie che appartengono a Hamas e persino al gruppo della Jihad islamica..! Al di là delle ideologie, la conoscenza crea fiducia, senza contare che tutti riconoscono l’alto livello dell’istruzione che impartiamo. Non ci sono divisioni né a livello di allievi – i cristiani sono un’ottantina – né nel corpo docente, che è in maggioranza costituito da musulmani. Per quanto riguarda l’insegnamento religioso, una suora si occupa di quello per gli alunni cristiani, mentre gli altri seguono le lezioni di islam. Per noi è fondamentale educare alla tolleranza e alla pluralità».
Parole che, nel contesto della Striscia, sono tutt’altro che in voga: alla vigilia del Natale, ricordo a suor Nabila l’indicazione diffusa l’anno scorso dalle autorità, che vietava a qualunque cittadino di fede islamica di partecipare alle celebrazioni cristiane… «Nella nostra scuola anche i genitori musulmani ci aiutano a decorare gli alberi di Natale e ad addobbare i locali, mentre tutti gli insegnanti vengono in convento per farci gli auguri, ma non possiamo più organizzare una festa con la distribuzione dei doni ai bambini… Però facciamo vacanza sia il 25 dicembre sia il 7 gennaio, per il Natale ortodosso, come peraltro in occasione della ricorrenza del Santo Rosario, il 7 ottobre, importante per la nostra congregazione: quest’anno abbiamo anche messo in piedi un momento celebrativo, nonostante qualche mugugno delle autorità…».
Solo in parrocchia, i pochi cristiani gazawi possono festeggiare la nascita di Gesù, pregare e cantare intorno al presepe, rafforzando una presenza antica in questa che è proprio la terra dove nacque il Salvatore. «Siamo pochi, ma siamo il sale della terra!», commenta suor Nabila. E racconta di quella bimba dell’asilo, musulmana, che si era così tanto affezionata a lei da raccontare a casa di volersi fare suora: «La famiglia del padre era molto conservatrice e la mamma, che amava la nostra scuola, mi raccomandò di parlare alla piccola per evitare incidenti diplomatici! Io lo feci, le spiegai di non dire queste cose davanti ai nonni e che poi da grande avrebbe fatto ciò che si sentiva nel cuore». Intanto, con la loro vita, le suore di Gaza continuano a gettare semi di testimonianza.