Ci avevano provato per un paio di anni a cambiare le cose, poi il Paese è ripiombato nell’incubo del regime militare. Ma i giovani e la società civile non sono disposti ad accettare di tornare al passato
«Qualsiasi repressione del diritto alla vita e alla libertà religiosa, del diritto di riunione e di esprimere liberamente e con sicurezza le proprie opinioni è in netto contrasto con la creazione di una società giusta». Sono parole dure quelle usate da monsignor John Putzer, della Missione permanente della Santa Sede presso il Consiglio dei diritti umani Onu a Ginevra, sulla situazione del Sudan. Il golpe dello scorso 25 ottobre ha, infatti, provocato un nuovo drammatico passo indietro nel cammino che – con fatica, ma anche con speranza – si stava facendo verso una maggiore democratizzazione. Oggi, il Sudan si ritrova nuovamente nelle mani dei militari. Punto e a capo? Non proprio.
Certamente il colpo di mano dell’esercito preoccupa tutti, anche la piccola comunità cristiana che, dopo lunghi anni di regime islamista, intravedeva una luce e la possibilità di una piccola ma significativa apertura verso una maggiore libertà di culto. Oggi invece è tornata a regnare la violenza. E non solo. C’è anche il rischio che correnti islamiste più radicali tornino ad avere il sopravvento. «La violenza non è mai un’opzione legittima per risolvere le divergenze di opinione – ha stigmatizzato monsignor Putzer -. Occorre riconoscere e sostenere la dignità umana e i diritti fondamentali di ogni persona, nel rispetto reciproco e in uno spirito di dialogo fraterno. Solo così si potrà ristabilire la vera pace che ha come obiettivo la promozione dello sviluppo umano integrale e del bene comune». Le parole del rappresentante vaticano sembrano riecheggiare gli slogan che migliaia di giovani e molti esponenti della società civile hanno portato nelle strade e nelle piazze della capitale Khartoum e di molte altre città. Un movimento di massa che i militari hanno represso con brutalità, ma che non hanno sconfitto; un movimento che non sembra disposto a rinunciare alle piccole ma significative riforme avviate dopo la caduta del dittatore Omar el Bashir nel 2019.
«Quello che è successo – ci dice una fonte cristiana che chiede l’anonimato per motivi di sicurezza – ha un po’ scoraggiato la gente e fatto perdere la fiducia nel cambiamento. Molti pensano che, nonostante gli accordi, i militari alla fine fanno quello che vogliono e dunque non credono in un governo misto con i civili. Ma la situazione è davvero molto complessa e difficile da decifrare. Così come è difficile immaginarne gli sviluppi». Già il ritorno al ruolo di primo ministro di Abdalla Hamdok, prima deposto, poi messo agli arresti domiciliari e quindi richiamato a ricoprire lo stesso incarico, è quanto meno sospetto. Per molti inaccettabile. L’Associazione dei professionisti sudanesi che aveva avuto un ruolo importante nella caduta di Bashir ha parlato esplicitamente di «suicidio politico». I comitati di resistenza, formati da movimenti popolari, sembrano decisi più che mai a portare avanti azioni di resistenza civile.
Non si tratta solo di giovani, ma anche di insegnanti, lavoratori e imprenditori, che non accettano un ritorno al vecchio regime e che hanno messo in campo varie forme di “disobbedienza civile” a cui le forze dell’ordine hanno reagito con la violenza. Si parla di decine di morti – tra cui un ragazzino di 16 anni -, di centinaia di feriti, ma anche di una novantina di insegnanti arrestati. «È una società civile che è cresciuta negli ultimi anni – analizza la nostra fonte -, grazie soprattutto a un certo sviluppo del sistema educativo e alla maturazione di una classe media importante. Quella che vediamo manifestare oggi non è una società islamista chiusa o arretrata; nel Paese tuttavia rimane una pesante zavorra legata ai partiti politici tradizionali bloccati nelle loro posizioni retrograde in cui ognuno cerca il proprio interesse, facendo riferimento, in maniera più o meno strumentale, anche a un islam più radicale».
È quello che teme il vescovo di El Obeid, monsignor Yunan Tombe Trille, presidente della Conferenza episcopale del Sudan: «Credo che dietro le forze armate ci siano i Fratelli Musulmani – ha dichiarato a Fides -; prima del golpe, li si vedeva nel Palazzo della Repubblica. La loro richiesta alla società civile e al governo era molto chiara: fatevi da parte e consegnate tutto nelle mani dell’esercito. Stiamo tornando all’era militare del Sudan, alla guerra piuttosto che la pace».
Qualcuno teme che si ritorni alla sharia o comunque a un’applicazione più rigida della legge islamica, come ai tempi di Hassan al Turabi, a lungo l’ideologo della fratellanza musulmana in Sudan. L’accordo del 21 novembre, del resto, prevedeva tra le altre cose il rientro a pieno titolo nel gioco politico di alcune forze islamiste che erano state bandite, come il Partito popolare del congresso. Si tratta di una prospettiva che inquieta molto anche i pochi cristiani presenti nel Paese: «È un tempo molto difficile per tutti – conferma il vescovo -. Come Chiesa abbiamo sperimentato un periodo di relativa calma dopo anni di attività decisamente opposte a noi: chiudevano chiese, ci toglievano edifici, non ci permettevano di operare. Per come la penso io, però, l’atteggiamento nei confronti della Chiesa non è molto cambiato se non nelle parole».
Il vescovo, tuttavia, pone un’altra questione cruciale: quella della crisi economica. Il Paese, infatti, è al collasso, l’inflazione ha raggiunto quasi il 400%, i prezzi dei beni di prima necessità sono saliti alle stelle, si fatica a trovare la benzina, la disoccupazione è dilagante e il settore informale messo in ginocchio dallo stato di emergenza. Intanto, alcune frange dell’esercito – come le Forze di supporto rapido, create da Bashir per reprimere la rivolta in Darfur – continuano ad avere un controllo quasi totale su alcuni ambiti dell’economia (anche sommersa). «La vita al momento in Sudan è molto dura, stiamo sopravvivendo per miracolo – dice il vescovo -. Tutto è molto caro, i trasporti, il cibo e la gente non ha pane. È una situazione insostenibile per la popolazione e gli aiuti della comunità internazionale arrivano solo ad alcuni, mentre moltissimi ne restano privi».
«La guerra civile e la separazione dal Sud – analizza la nostra fonte – hanno provocato quello che spesso succede nelle coppie che si dividono: entrambi stanno economicamente peggio. Non penso che questo dipenda prevalentemente dal petrolio che è rimasto principalmente al Sud. Le ricchezze del Nord sono soprattutto l’agricoltura, l’allevamento e i commerci. Per la sua posizione geografica, il Sudan è sempre stato un crocevia tra Corno d’Africa e Africa del Nord. Ora tutta la regione è interessata da situazioni di crisi e conflitti. Lo stesso Sudan avrebbe avuto bisogno di consolidare maggiormente il percorso non solo di democratizzazione, ma anche di risanamento economico. Hamdok ci stava provando, ma sono situazioni che richiedono tanto tempo anche perché in passato molte riforme non sono state portate avanti con determinazione e competenza. Piuttosto abbiamo visto un gruppo che ha cercato di arricchirsi senza nessuna attenzione per il bene comune, anzi sulla pelle della gente».
Non bisogna poi dimenticare che la crisi del Sudan si inserisce in contesto regionale già fortemente destabilizzato dal conflitto in Etiopia e dalla cronica instabilità in Somalia, ma anche in un orizzonte internazionale in cui le Nazioni Unite mostrano una volta di più la loro inadeguatezza con Russia e Cina contrarie persino alla risoluzione di condanna del golpe da parte del Consiglio di sicurezza. Solo il vicino Egitto sembra particolarmente interessato alle sorti del Sudan. Forse perché il regime del Cairo non è del tutto estraneo al colpo di Stato dello scorso ottobre. MM
Militari e Islam
1888-89: il Sudan diventa condominio anglo-egiziano
1955: scoppia la rivolta tra Nord e Sud
1956: indipendenza
1958: golpe del generale Ibrahim Abbud
1964: la “Rivoluzione di ottobre” destituisce Abbud e istituisce un governo guidato da islamisti
1969: golpe del generale Gaafar Nimeir
1983: imposizione della shari‘a e rivolta del Sud
1989: il generale Omar El-Bashir assume il potere con il sostegno di Hassan al-Turabi, fondatore del Fronte islamico nazionale
2003: ribellione in Darfur
2005: accordo di pace tra il governo di Khartoum e l’Esercito di liberazione del Sud Sudan (Spla)
2011: indipendenza del Sud Sudan
2019: dopo imponenti manifestazioni, l’esercito depone Bashir
2020: accordo di pace con alcuni gruppi ribelli
2021, 25 ottobre: colpo di Stato militare