«In quel giorno, / in quell’ora – scrive Pablo Neruda – leverò in alto le braccia / e le mie radici usciranno / a cercare altra terra». Tanto più oggi nel mezzo di una pandemia infinita, tentati di mollare la presa del Cielo
Ho trascorso gli ultimi mesi dell’anno 2021 nel monastero benedettino di Dumenza, in provincia di Varese. Il 17 gennaio ritorno in Cambogia. La vita monastica resta però un anelito ancora forte. Che esprimo con un’immagine.
Durante le preghiere in cappella, in particolare per la recita del Padre Nostro, i monaci si voltano verso l’altare. In questi mesi, in cappella, mi trovavo spesso dietro fratel Andrea che voltandosi per la recita della preghiera di Gesù, mi dava le spalle. Lo osservavo da dietro. Solitamente, recitando il Padre Nostro, apriamo le braccia e le mani come per ricevere un dono o accogliere un amico. Andrea invece le alzava più in alto, compiendo il gesto tipico di chi si arrende di fronte a qualcuno. Da dietro, quelle braccia alzate e quelle mani spalancate, tese verso l’alto, mi sembravano non solo la sua quotidiana resa al mistero di Dio, ma anche e soprattutto radici tese verso l’alto, alla ricerca di un’altra terra, desiderose di aggrapparsi al Cielo. Pablo Neruda in una sua poesia evoca un gesto molto simile. «In quel giorno, / in quell’ora – scrive il poeta – leverò in alto le braccia / e le mie radici usciranno / a cercare altra terra». Come Andrea le cui braccia e le cui mani, alzate in preghiera, mi apparivano come radici tese nell’atto di attingere a «nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2Pt 3,13).
Quel gesto ripetuto tutti i giorni, questa fine d’anno, il tempo che scorre e un brano di Vangelo che racconta della profetessa Anna, proposto dalla Liturgia lo scorso 30 dicembre, mi hanno fatto intuire che vi è un rapporto fra il tempo e il tempio. Anna, rimasta presto vedova, aveva ormai ottantaquattro anni, e «non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere» (Lc 2,37). Il tempo di Anna, «notte e giorno», era tempo trascorso nel tempio. Per lei il tempo era tempio. Ogni istante vissuto nell’offerta di sé, «servendo Dio notte e giorno», faceva della sua vita, del suo corpo, un tempio: un luogo di culto a Dio.
Per quanto San Paolo ci abbia già detto che il nostro corpo è tempio dello Spirito (1 Cor 6,19), nondimeno la percezione del tempo come tempio, sembra comprendere qualcosa di più. Perché nell’atto di fede, è implicata la totalità dell’esistenza, offerta al Signore in ogni istante. «Questa è la grande legge: rendere familiare, quasi continuo, ovvio… questo “Ti offro” in qualsiasi gesto… è la vita che diventa preghiera, la totalità dell’esistenza che diventa preghiera…» [1]. In fondo anche il Verbo di Dio nel farsi carne, fa del tempo il suo tempio, luogo dell’offerta di sé, istante dopo istante, a Dio Padre. Così facendo, la vita diventa una liturgia, «il tentativo forse più radicale di pensare una prassi assolutamente e integralmente effettuale… più efficace della legge… più reale dell’essere… più effettivo di qualsiasi azione umana…»2] ché ci innesta in una perdurante comunione con Dio, al di là dai nostri meriti. Non c’è altro che preghiera, che offerta di sé nel tempo – tempio.
Come nella vita di un moderno Giobbe, uscito dalla penna dello scrittore ebreo austriaco Joseph Roth [3], che ho appena riletto. Il protagonista del romanzo, Mendel Singer, ha quattro figli, l’ultimo dei quali, Menuchim, è minorato, incapace di parlare e muoversi. Mendel fa l’insegnante. Insegna la Scrittura, la Bibbia, ad un manipolo di bambini nella cucina di casa e così, ebreo devoto al Dio dell’alleanza, si guadagna da vivere. Ci prova anche con il figlio minorato. «Tu sei il mio figlio più giovane, la mia ultima e più giovane speranza… Perché taci, Menuchim? … Guarda qua … e ripeti queste parole: “In principio Dio creò il cielo e la terra”», ma il bambino rimane impassibile. «Cantandogli la Creazione e il Principio, Mendel vuole plasmare il figlio e dargli la parola attraverso la Parola», commenta P. Boitani [4]. Per Mendel il tempo è tempio, la vita, la famiglia, il lavoro, tutto è compreso in quel «Ti offro», come culto devoto al Dio dei suoi padri. Anche sua moglie gli va dietro. È certa che il figlio guarirà e lo porta da un santo rabbino perché lo benedica. «Menuchim, figlio di Mendel, guarirà» – profetizza il rabbi. E continua incoraggiando la madre: «pari a lui non ce ne saranno molti in Israele. Il dolore lo farà saggio, la deformità buono, l’amarezza mite e la malattia forte… non abbandonare tuo figlio, anche se per te è un grosso peso, non disfartene, egli viene fuori da te…». Lascio a voi di continuare la lettura. Volevo solo rievocare quell’atmosfera di fede e preghiera che fa del tempo il tempio. Tanto più nel mezzo di una pandemia infinita, tentati di mollare la presa del Cielo.
I legittimi divieti trattengono i nostri corpi, non le nostre anime. Se c’è volgarità in chi fa cassa dentro questa sventura; se c’è paura, nervosismo, non accusatevi gli uni gli altri. È perché questa terra non basta. Alziamo dunque le braccia, apriamo le mani in preghiera, come radici che cercano altra terra, in Cielo! Buon anno a tutti voi!
[1] L. GIUSSANI, Il tempo e il tempio. Dio e l’uomo, Milano 2015, 85.[2] G. AGAMBEN, Opus Dei. Archeologia dell’ufficio, Torino 2011, 6.
[3] J. ROTH, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Milano 1999, 132.
[4] P. BOITANI, Ri-Scritture, Bologna 1997, 193.