A Karak, nella provincia più povera del paese, dal 1935 le comboniane gestiscono una struttura che cura i bisognosi, a cominciare dai rifugiati. «La biblica storia di Rut ispira il nostro impegno», racconta suor Adele Brambilla
«Questa è la biblica valle di Moab, le terra di Noemi e di Rut: due donne la cui vicenda rappresenta un messaggio di integrazione culturale, apertura all’altro e cura della vita, che ci ispira nel nostro impegno di ogni giorno». Suor Adele Brambilla parla così della sua terra di missione: Karak, il governatorato meridionale della Giordania al limite del deserto che si estende fino ai confini con l’Arabia Saudita, un tempo cruciale via di passaggio per i commerci grazie all’antichissima Strada dei Re e che oggi, con i suoi 300 mila abitanti, è invece l’area più povera del regno hashemita.
La cittadina di Karak, nota ai turisti per le rovine del locale castello crociato, sorge tra i monti 140 chilometri a sud della capitale Amman. Proprio qui, dove al pesante impatto economico della pandemia di Covid-19 si aggiungono gli effetti di una crisi idrica senza precedenti, sorge un ospedale in cui dal 1935 le missionarie comboniane si prendono cura dei più bisognosi, tra cui le minoranze etniche che abitano la regione: i beduini del deserto, pastori di pecore e capre alcuni dei quali conducono ancora una vita nomade, ma anche i ghorani, discendenti da schiavi africani deportati secoli fa sulla costa del Mar Morto e che tuttora subiscono forme di discriminazione.
Ci sono poi gli immigrati – egiziani e libici, curdi, srilankesi e pachistani – e i rifugiati, che attualmente nel Paese sono più di un milione su dieci milioni di abitanti. «La Giordania è tradizionalmente accogliente», racconta suor Adele, milanese, classe 1949, che sbarcò ad Amman nel 1984, «nel clima incandescente che portò allo scoppio dell’intifada», sottolinea. «Proprio dalla Palestina, con cui fino al 1967 il regno formava un’unica entità, arrivarono ondate successive di profughi: nel ’48, quando nacque lo Stato di Israele, poi vent’anni dopo, in seguito alla guerra dei Sei giorni e ancora durante la rivolta popolare degli anni Ottanta. Nel 1991 fu poi la volta degli iracheni, al tempo della prima guerra del Golfo, mentre dal 2011 hanno cominciato ad attraversare il confine centinaia di migliaia di siriani in fuga dal conflitto».
Disperati provenienti da luoghi geografici diversi ma con storie simili di sradicamento e miseria. «A tutti loro questo Paese ha aperto le porte, ma le risorse di cui dispone sono limitate», spiega la religiosa italiana. Proprio i rifugiati sono tra i pazienti curati quotidianamente – e gratuitamente – all’Italian Hospital di Karak, fondato 87 anni fa dall’Associazione nazionale per soccorrere i missionari italiani (Ansmi) grazie all’intuizione dell’egittologo torinese Ernesto Schiaparelli, convinto che la presenza cristiana in Medio Oriente potesse essere riconosciuta e apprezzata solo attraverso la testimonianza delle opere.
«In quest’area, dove i cristiani rappresentano solo il 3% della popolazione, l’ospedale è stato il primo e per molti decenni l’unico presente», spiega suor Adele, infermiera di formazione e coordinatrice sanitaria della struttura, che gestisce insieme ad altre tre consorelle. «Oggi abbiamo cinquanta posti letto: ci sono un reparto di medicina e chirurgia generale e uno di maternità, oltre al pronto soccorso, alla radiologia e a un’unità pediatrica con cinque incubatrici, mentre di recente abbiamo aperto diversi ambulatori specialistici – urologia, neurologia, oftalmologia…- per venire incontro alle esigenze della popolazione meno abbiente, che altrimenti per curarsi dovrebbe andare fino ad Amman. Ogni anno assistiamo 30 mila persone».
Nella provincia giordana con la più alta percentuale di disoccupazione – ma anche di nuovi nati – dell’intero Paese, l’opera delle suore ha un ruolo sociale fondamentale e costituisce anche una forma di evangelizzazione silenziosa: «Attraverso il nostro impegno condividiamo e annunciamo, in particolare ai più poveri e oppressi, la buona notizia dell’amore universale di Dio in Gesù», conferma la comboniana milanese.
C’è poi il grande fronte del dialogo interreligioso, portato avanti a partire dal terreno comune del servizio ai bisognosi: «I nostri collaboratori, un’ottantina di persone tra medici, infermieri, personale tecnico e amministrativo, sono quasi tutti musulmani. Lavorando insieme, cerchiamo di trasmettere i valori evangelici, a cominciare dalla dignità assoluta della vita umana». Nonostante anche la Giordania risenta dell’instabilità dell’area e i suoi confini siano permeabili all’influsso dei fondamentalismi che, dalla Siria all’Iraq, sono divampati negli ultimi anni, la condizione della minoranza cristiana resta abbastanza serena. «Questa è una Terra Santa non solo per le sue radici bibliche: più a valle, sulle rive del Giordano, Gesù ricevette il battesimo da Giovanni e i primi cristiani fuggiti da Gerusalemme trovarono rifugio qui. Una presenza ben testimoniata a Petra, dove sorgono diversi siti archeologici in cui sono state rinvenute alcune antichissime chiese», racconta suor Adele. «Oggi la zona è al 97% musulmana, eppure resiste una piccola comunità cristiana costituita da latini, greco-ortodossi, melchiti e protestanti. Noi suore affianchiamo i fedeli che fanno riferimento alla parrocchia del Rosario: una settantina di famiglie assistite da un sacerdote locale. Con loro continuiamo semplicemente a esserci, come un seme».
Una sfida resa ancora più difficile dall’impatto della pandemia di Covid-19: «Il Paese sta vivendo una crisi economica pesante, di cui ha risentito anche il nostro impegno. Se da una parte l’ospedale ha dovuto affrontare spese straordinarie per la prevenzione e la protezione dal contagio, dall’altra i finanziamenti a disposizione sono diminuiti: molte ong hanno lasciato il territorio e quelle rimaste non hanno fondi per aiutarci. Per questo dobbiamo fare appello all’estero». Dove, nonostante le difficoltà, qualcuno risponde sempre. Come i medici e i tecnici fisioterapici dell’ospedale Bambino Gesù di Roma che, grazie a un gemellaggio avviato da alcuni anni, vengono periodicamente a Karak per occuparsi della neuroriabilitazione dei piccoli pazienti cerebrolesi. «Sono volontari che hanno scelto di mettere competenze e passione al servizio di questi giovanissimi malati, per i quali altrimenti non ci sarebbe possibilità di cura». Piccoli segni di speranza, preziose gocce d’acqua nel deserto. MM