Taiwan, lo Stato che la Cina non vuole

Taiwan, lo Stato che la Cina non vuole

Considerata una “Provincia ribelle” da Pechino e sempre più marginalizzata internazionalmente, l’isola teme ora un’aggressione militare

L’avvistamento dei caccia da combattimento e delle navi da guerra cinesi nei pressi dei propri cieli e delle proprie acque è ormai la norma per Taiwan. Un’abitudine pericolosa, secondo molti osservatori, perché le sortite militari di Pechino potrebbero essere un espediente per mascherare una vera aggressione nel prossimo futuro: qualche stratega statunitense ipotizza entro il 2026. La Cina considera Taiwan una “provincia ribelle”, e non ha mai escluso di riconquistarla con l’uso della forza. L’isola è di fatto indipendente da Pechino dal 1949; all’epoca, i nazionalisti di Chiang Kai-shek vi avevano trovato rifugio dopo aver perso la guerra civile sul continente contro i comunisti, facendola diventare l’erede della Repubblica di Cina fondata nel 1912 (che a sua volta aveva messo fine al bimillenario impero cinese).

Inizialmente una dittatura a partito unico (il Kuomintang di Chiang), tra fine anni Ottanta e metà anni Novanta del secolo scorso Taiwan è diventata una vibrante democrazia, oltre che un’economia di mercato molto dinamica. Oggi è il primo produttore mondiale di microchip, componenti essenziali di smartphone, computer e ogni altro sistema elettronico. Agli occhi della leadership cinese, la presidente taiwanese Tsai Ing-wen è una pericolosa secessionista. Tsai non riconosce il “principio dell’unica Cina”, secondo il quale esiste un solo grande Paese, quello rappresentato dal governo di Pechino.

La Cina non instaura rapporti diplomatici formali con un altro Stato se questo non disconosce il carattere statuale di Taiwan, che ha perso il suo seggio alle Nazioni Unite nel 1971 per fare posto a Pechino. I cinesi boicottano anche la partecipazione di Taipei nelle diverse organizzazioni internazionali, come ad esempio l’Organizzazione mondiale della sanità. Con la recente rottura delle relazioni con il Nicaragua, Taiwan ha ora legami diplomatici pieni – con scambio formale di ambasciatori – con soli 14 Stati, tra cui il Vaticano.

Dall’insediamento di Tsai nel 2016, Pechino ha strappato all’isola otto partner diplomatici: Burkina Faso, Panama, São Tomé e Príncipe, Repubblica Dominicana, El Salvador, Isole Salomone, Kiribati e Nicaragua. Quella cinese è una strategia per ridurre ancor di più lo spazio internazionale di Taiwan. Prima della sua vittoria elettorale del 28 novembre, anche la presidente eletta dell’Honduras Xiomara Castro aveva dichiarato la volontà di rompere con Taipei per abbracciare Pechino, un proposito che sembra al momento accantonato. Da tempo circolano voci su pressioni cinesi anche nei confronti del Vaticano.

 

L“ambiguità strategica” degli Usa produce continue tensioni con il governo cinese

Da parte loro, gli Stati Uniti vogliono rafforzare il profilo globale di Taiwan: un modo anche per creare consenso internazionale contro una possibile invasione cinese dell’isola.
Washington ha legami diplomatici ufficiali con Pechino, senza tuttavia accettare la posizione cinese secondo cui Taiwan è parte della Cina. Con il Taiwan Relations Act, gli Stati Uniti hanno promesso di difendere Taipei, soprattutto con forniture militari. Adottato nel 1979 dopo il formale riconoscimento diplomatico della Cina comunista, il provvedimento non specifica l’effettiva natura dell’impegno Usa: una “ambiguità strategica” che produce continue tensioni con il governo cinese.

Gli Usa rispondono con proprie operazioni aeree e navali a quelle condotte dai cinesi vicino all’isola. Nel corso del 2021, la Marina statunitense ha effettuato dieci passaggi nello stretto di Taiwan; per Pechino è motivo d’irritazione. Il 21 ottobre Joe Biden ha affermato che, in caso di attacco dei cinesi, gli Stati Uniti difenderanno Taipei: un’apparente presa di distanza dalla tradizionale cautela di Washington sull’eventuale risposta a un’aggressione di Pechino nei confronti di Taiwan.

Nei mesi scorsi Washington e Taipei hanno rilanciato i negoziati per concludere un accordo di libero scambio. Senza questa intesa, Taiwan teme di non riuscire ad affrancarsi dalla dipendenza economica da Pechino. Malgrado gli sforzi in questo senso dell’amministrazione Tsai, la Cina comunista rimane la prima destinazione dell’export taiwanese: il 43% del totale, con un aumento di quasi il 15% nel 2020. Di recente anche Paesi Ue come Lituania, Repubblica Ceca e Slovacchia hanno intensificato i rapporti con i taiwanesi. Per le loro aperture all’isola, i lituani stanno subendo un boicottaggio commerciale da parte della Cina; l’Unione Europea ha minacciato di portare il caso all’attenzione dell’Organizzazione mondiale del commercio.

Secondo un recente sondaggio commissionato dal Consiglio taiwanese per gli affari con la Cina (organo governativo di Taipei), l’84,9% dei taiwanesi intervistati ha detto di volere il mantenimento dello status quo; l’1,6% guarda alla riunificazione con Pechino e il 6,8% è favorevole all’indipendenza. È da sottolineare che per la presidente Tsai l’isola è già uno Stato indipendente. MM