Il conflitto in Ucraina ha fatto schizzare alle stelle i prezzi delle materie prime, già gonfiati da pandemia e crisi energetica. Una tempesta perfetta che ha messo a rischio la sicurezza alimentare in vaste aree, dall’Africa al Medio Oriente
Risuonano le armi in Europa, e a migliaia di chilometri si risveglia lo spettro della fame. Le popolazioni di Paesi come Yemen e Bangladesh, Libano e Sudan, del Nord Africa e dell’area saheliana si sono trasformate in “vittime collaterali” della guerra tra Russia e Ucraina. La sicurezza alimentare di ampie regioni del mondo già flagellate da carestie, scontri armati e scarsità delle riserve di cibo sta subendo i drammatici contraccolpi del conflitto sul suolo del granaio d’Europa.
L’Ucraina ospita un terzo del terreno più fertile al mondo, è tradizionalmente leader nella produzione di olio di girasole, orzo e mais e soprattutto, insieme al gigante russo, fino all’invasione del febbraio 2022 garantiva il 26% delle forniture globali di grano. In un momento in cui i prezzi dei cereali avevano già toccato i livelli più alti dell’ultimo decennio – con le catene di approvvigionamento messe alla prova dalla pandemia di Covid-19 e dagli effetti di eventi climatici estremi -, la guerra alle porte di casa nostra, che qui ha amplificato la preoccupazione legata all’accesso all’energia, altrove ha gettato nel panico milioni di persone che si sono trovate nelle condizioni di non riuscire a mettere in tavola almeno un pasto al giorno.
Nel 2020 il 95% delle esportazioni di grano di Kiev era finito in Asia (Medio Oriente incluso) o Africa, spesso in Paesi a basso reddito o con elevati livelli di insicurezza alimentare. Mosca, da parte sua, riforniva alcune nazioni subsahariane, tra cui Nigeria e Sudan, mentre l’Egitto dipendeva dalle importazioni combinate russo/ucraine per il 70% della sua fornitura di frumento.
I combattimenti, scoppiati proprio alla vigilia della stagione della semina, hanno avuto conseguenze gravi sia sul fronte dei mancati raccolti, sia su quello delle esportazioni, con la chiusura dei suoi porti sul Mar Nero e le difficoltà di approvvigionamento in tutto il mondo.
Da un capo all’altro del mondo, dunque, è allarme non solo per l’urgenza di cercare accordi di importazione alternativi ma anche per l’impennata ulteriore dei prezzi seguita allo scoppio del conflitto: alla Borsa merci di Chicago, riferimento mondiale per i cereali, dall’inizio degli scontri i futures (contratti futuri) sul frumento hanno fatto registrare continui record, con i costi più elevati dal 2008. Rincari che in molti contesti, dal Medio Oriente all’Africa, hanno provocato un impatto devastante sulla popolazione più povera.
Il Kenya è tra i Paesi che hanno lanciato l’allarme anche per i rialzi dei fertilizzanti, un altro dei beni di cui la Russia è uno dei maggiori fornitori mondiali. Il pericolo è un contraccolpo a lungo termine sulla produttività agricola globale: in Bangladesh, per esempio, i piccoli agricoltori temono una riduzione dei raccolti per le colture di base come il riso. Secondo Shirley Mustafa, economista alla Fao già prima della guerra proprio i picchi del prezzo dei fertilizzanti avevano contribuito all’inflazione sul fronte delle commodities alimentari, influenzata anche dagli alti costi energetici. Una tempesta perfetta impossibile da evitare, dunque?
Secondo l’economista Riccardo Moro, docente all’Università Statale di Milano e alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, esperto internazionale di sviluppo sostenibile e lotta alle disuguaglianze, non è esattamente così. «Non ci sono ragioni reali che giustifichino aumenti tanto marcati: la produzione di riso e cereali quest’anno era andata bene e le aspettative della Fao fino a febbraio parlavano di abbondanza dei raccolti. È vero che i rincari delle materie prime energetiche hanno avuto un impatto sull’inflazione, ma ciò a cui assistiamo sui mercati non riguarda solo la concreta disponibilità di prodotto quanto l’amplificazione di alcuni allarmi causata dalle speculazioni e dalle imperfezioni nei meccanismi di distribuzione». Quello delle global supply chain, le catene di approvvigionamento globale, è un nodo che Moro considera cruciale: «A livello internazionale e regionale molto spesso ci si scontra con ostacoli burocratici che rallentano la circolazione dei prodotti. In Africa, per esempio, c’è ancora una grossa frammentazione tra le zone che condividono accordi economici. In questo senso l’apertura lo scorso anno di un’area di libero scambio continentale rappresenta potenzialmente una svolta fondamentale. Resta il problema della distribuzione locale, che in numerosi Paesi africani è inefficiente, da una parte in ragione del fatto che pochi grandi trader monopolizzano il mercato alimentare e dall’altra perché non esiste un’adeguata rete di trasporti e di aree attrezzate». Un’inefficienza che, qui come altrove, ovviamente peggiora nel caso di guerre in corso – pensiamo allo Yemen – o di situazioni di conflitto a bassa intensità, come nell’area subsahariana.
L’altra grande questione sottolineata dall’economista, quella delle speculazioni, assume volti diversi: «Di fronte a situazioni di volatilità capita che gli operatori più spregiudicati trattengano il prodotto per fare lievitare i prezzi e lo mettano sul mercato successivamente per approfittarne. Un fenomeno ben spiegato dagli studi di Amartya Sen relativi alle carestie». E le criticità aumentano quando entrano in gioco le Borse: «Oggi le materie prime vengono di fatto negoziate attraverso i futures, i contratti futuri. Ma se in origine i prodotti finanziari derivati mutuavano il loro valore dall’andamento del mercato reale, oggi ci troviamo in una situazione per cui sono i prezzi dei titoli derivati, seppur spinti da stimoli esistenti, a trascinare quelli del prodotto fisico nel mercato. E così se, ad esempio, una situazione di incertezza come un’emergenza climatica o appunto una guerra spinge a 100 il costo del grano a tre mesi, nessuno oggi lo vorrà vendere a 50 e anche i produttori alzeranno i prezzi». Il rischio della fame nei Paesi più poveri, e tra le fasce più vulnerabili della popolazione, dipende quindi soprattutto dalle mosse di alcuni attori che si muovono in modo spregiudicato sui mercati. I quali – e questa secondo Riccardo Moro è la vera questione da affrontare – restano ampiamente sprovvisti di regole.
L’economista parla anche in veste di direttore esecutivo di Gcap (Global call for action against poverty), una delle più grandi reti della società civile al mondo, nata nel 2005 per dialogare con Onu, istituzioni internazionali e governi sull’implementazione degli Obiettivi di sviluppo del millennio e in generale sui temi di global governance, lotta alle disuguaglianze e sviluppo sostenibile: «Una delle richieste che abbiamo sempre portato avanti è proprio quella di regolamentare i mercati per renderli più efficienti ed efficaci, visto che i fatti dimostrano la fallacia della retorica neoliberista sulla loro autosufficienza».
Tra le storture da correggere spicca quella delle posizioni dominanti: «Esistono alcuni grandi attori privati che condizionano pesantemente il mercato delle materie prime e, non a caso, anche quello finanziario. Il Dodd-Frank Act, l’intervento di riforma di Wall Street promosso da Barack Obama nel 2010, è stato poi smantellato ad arte da Donald Trump, mentre in Europa i tentativi di regolamentazione sono sempre stati timidi». E non ha scardinato questa logica nemmeno il Food Systems Summit dell’Onu tenutosi lo scorso settembre, che «ha confermato il ruolo del settore privato non come attore tra gli altri ma come protagonista che detta le regole, al posto della politica». A discapito degli attori più vulnerabili: piccoli produttori e consumatori a minor reddito. Per questo, per scacciare lo spettro della fame – nell’emergenza di oggi e nel futuro – non è sufficiente che ogni singolo Stato differenzi le importazioni e torni a occuparsi della propria sovranità alimentare, ma è fondamentale anche ripensare, tutti insieme, alle regole di un mercato ingiusto.