A Macapá, padre Francesco Sorrentino vive il suo impegno tra i figli degli indios che oggi possono studiare all’università
Padre Francesco Sorrentino, 35 anni, ha individuato nell’università uno degli ambiti nuovi di evangelizzazione in Brasile. Precisamente in Amapá, tra i discendenti degli indios alla foce del Rio delle Amazzoni.
Padre Francesco, sei in Amazzonia dal 2007 e il tuo servizio missionario sta assumendo tratti diversi da quelli tradizionali.
«È abbastanza vero. Mi sto concentrando sul mondo giovanile a tre livelli: il mondo universitario, l’animazione missionaria e vocazionale, la formazione di nuovi leader per le comunità ecclesiali».
Iniziamo da quest’ultimo.
«Dal 2008 lavoriamo con un gruppo della diocesi di Belo Horizonte, che viene da noi due volte l’anno a formare i nostri laici a Macapá. Ora vogliamo costituire la nostra équipe: laici che formano altri laici. Ed io dietro le quinte. Si tratta solo di dare loro qualche indicazione per aiutarli a passare da recettori a comunicatori, per trasmettere ad altri ciò che hanno appreso».
«Con i giovani delle parrocchie, ma anche con altri. Organizziamo giornate di preghiera, riflessione e discernimento invitando i parroci a mandarci i giovani interessati. Da queste attività vediamo l’interesse di alcuni per un’eventuale scelta di vita missionaria. Lavoriamo in questo senso sia in Amapá sia nel vicino Pará».
Per gli universitari di Macapá hai lanciato il Projeto Areopago.
«Sì, vogliamo aiutare i giovani ad aprirsi alle situazioni di povertà, al dialogo interreligioso, alla promozione umana e alle attività socio-culturali. L’areopago di Atene è stato il primo luogo di incontro tra fede cristiana portata da Paolo di Tarso e mondo accademico. È un tentativo e un cammino».
Di che tipo?
«Il primo obiettivo è creare tra gli universitari una rete di amicizia ecumenica e multiculturale ed essere protagonisti in questa epoca di cambiamento. Puntiamo a favorire la condivisione sia dentro che fuori l’ambito accademico; a promuovere il dialogo tra fede e ragione tramite attività di scambio, dibattiti, film, corsi; organizzare momenti di spiritualità; promuovere esperienze di volontariato; gettare lo sguardo “oltre frontiera” tramite l’informazione missionaria, i contatti con università di altri Paesi, esperienze di solidarietà all’estero».
A chi ti ispiri nel tuo impegno?
«Anzitutto alla tradizione della mia comunità missionaria. Poi, durante i miei studi di teologia a Belo Horizonte ho incontrato la figura del compianto vescovo di Mariana dom Luciano Mendes de Almeida (1930-2006), già segretario e poi presidente della Conferenza episcopale del Brasile. Vescovo del dialogo e dei poveri. Uomo di grande spiritualità».
Il tuo servizio missionario in che cosa differisce da quello più tradizionale da queste parti?
«La Chiesa e i missionari si sono sempre occupati anche di giovani e di studenti. Ma ora ci si rende conto che si vive sempre meno in un ambito locale e sempre più in una dimensione globale e interattiva. Occorre essere presenti e incidere sulla cultura e sui modelli di pensiero. Per questo l’università, la comunicazione, i media, i giovani e gli studenti diventano importanti. Devono essere aiutati a “pensare” e trovare il senso della vita in un contesto culturale e spesso anche religioso che privilegia l’emotività e l’istante. Mi riferisco anche a certi gruppi religiosi. Io desidero che i giovani preghino pensando e pensino pregando». MM