Circa metà della popolazione a rischio. È la drammatica situazione della Repubblica Centrafricana, secondo Paese meno sviluppato al mondo e tra quelli con la più alta percentuale di persone che soffre di grave insicurezza alimentare. L’appello del Pam e l’invito del cardinale Nzapalainga a investire sulle scuole per costruire un futuro di pace e sviluppo
Una grave crisi alimentare che richiede «finanziamenti immediati». È l’allarme lanciato dal porta-parola dell’Onu in relazione alla situazione sempre più drammatica di un Paese che si trova nel cuore dell’Africa e «che sta facendo fronte a bisogni umanitari inediti e dove la sicurezza alimentare si è deteriorata». Si tratta della Repubblica Centrafricana, uno dei Paesi più poveri al mondo, destabilizzato da dieci anni di conflitto, con milioni di persone sfollate e profughe e, attualmente, con quasi metà della sua popolazione – ovvero 2 milioni 200 mila persone – che rischia di morire di fame.
Lo aveva denunciato con apprensione anche l’arcivescovo di Bangui, il cardinale Dieudonné Nzapalainga, che durante un recente viaggio in Italia aveva sottolineato come il suo Paese, che non ha sbocco sul mare e che deve importare quasi tutto il necessario alla propria sopravvivenza, si trovasse in una situazione particolarmente critica. «In questi ultimi mesi scarseggiano i beni di prima necessità e quelli disponibili hanno prezzi altissimi. E la guerra in Ucraina non fa che aggravare una situazione già estremamente precaria a causa dell’instabilità del nostro Paese».
Secondo il Programma alimentare mondiale (Pam) il prezzo del riso dovrebbe crescere del 30%, mentre la farina di frumento è già cresciuta del il 67% e l’olio vegetale del 70%. «I bisogni superano le risorse che abbiamo a disposizione – ha affermato Tomson Phiri, secondo il quale sarebbero necessari 68,4 milioni di dollari – Se non abbiamo soldi, saremo costretti a prendere il cibo da chi ha fame e darlo a chi ha ancora più fame».
«Abbiamo vissuto anni molto difficili – conferma il cardinale Nzapalainga – Sino a non molto tempo fa, infatti, quasi l’80 per cento del Paese era in balìa di gruppi ribelli e mercenari. Ora tutte le città più grandi sono tornate sotto il controllo del governo, mentre quelle più piccole e molte zone rurali, specialmente a ridosso dei confini, continuano a essere destabilizzate da miliziani e banditi. Questo contribuisce ad aggravare la crisi umanitaria».
Il Paese è classificato dalla Nazioni Unite come il secondo meno sviluppato al mondo e per almeno altri dieci anni, sino al 2023, sarà in qualche modo dipendente dagli aiuti umanitari. Insieme a Yemen, Afghanistan e Sud Sudan, è uno dei Paesi con la più alta percentuale di persone che soffre di grave insicurezza alimentare.
La Chiesa locale è attivamente impegnata nel cercare di far fronte a questa emergenza, ma anche nel porre le basi per uno sviluppo più sostenibile ed equo che permetta alle famiglie e ai giovani di costruire il proprio futuro. «Per questo – dice il cardinale – da un lato lavorriamo per consolidare i percorsi di pace e riconciliazione. D’altro canto, però, pensiamo che si debba investire innanzitutto sulle scuole, sull’educazione e sulla cultura, per disarmare i cuori e pensare di costruire un futuro di vera pace e sviluppo per tutti. La Chiesa è stata ed è un punto di riferimento imprescindibile in questa situazione di crisi e di miseria. Spesso, anzi, è l’unico riferimento, specialmente nelle zone più remote e abbandonate del Paese. Ora però occorre guardare avanti. Dobbiamo combattere l’ignoranza su cui non si può costruire alcun futuro. Le scuole sono un luogo di incontro e di crescita formidabili, una proiezione verso l’avvenire».