Le conseguenze della guerra in Ucraina stanno dimostrando la fragilità del nostro modello di condivisione delle risorse: ecco cosa è in gioco e le alternative sostenibili per l’ambiente e le persone (qui e nel resto del mondo)
Non è solo la minaccia di un inverno al freddo: dopo il crollo delle forniture di gas russo in risposta alle sanzioni per l’aggressione all’Ucraina, cresce l’ansia globale per l’aumento vertiginoso dei prezzi energetici e per le prospettive del nostro stesso modello di sviluppo. E in tutto il mondo impazza la corsa alle risorse. Se l’intera Europa si è attivata per far fronte all’emergenza, l’Italia, che per il suo fabbisogno dipende fortemente dalle importazioni, è in prima linea in questa gara ad accaparrarsi gli idrocarburi. Con un certo successo: nei primi sette mesi dell’anno il nostro Paese ha importato il 38% in meno di gas russo rispetto allo stesso periodo del 2021, con una diminuzione della dipendenza dal 40 al 18%.
Una buona notizia, se non fosse che la maggior parte delle alternative a Putin non sono certo esemplari sul fronte della solidità democratica e del rispetto dei diritti umani. Basti pensare che la nostra prima partner è diventata oggi l’Algeria – responsabile di un pesante giro di vite sulla libertà di espressione -, con cui Eni e il governo italiano hanno firmato un accordo secondo cui il Paese nordafricano si impegna ad aumentare gradualmente le forniture da qui al 2024 (con almeno 9 miliardi di metri cubi di gas in più).
La stessa Eni, poi, a giugno è entrata nel più grande progetto di gas naturale liquefatto (Gnl) al mondo: il North Field East, lanciato dal Qatar, emirato al centro di forti critiche tra l’altro per lo sfruttamento dei lavoratori immigrati (come quelli che hanno costruito gli stadi per i Mondiali di calcio al via a fine mese). Tra i nostri fornitori chiave figura anche l’Azerbaijan, e nell’elenco non manca la Libia.
A fianco delle perplessità di fronte a questi interlocutori “strategici” (ma ne siamo certi?), si fa ancor più pressante la questione della sostenibilità, su scala globale, dell’attuale modello di gestione delle risorse. Proprio l’emiro del Qatar, di recente, ha lanciato un appello urgente a Russia e Occidente affermando che Doha, seppur ricca di materie prime, non può sopperire da sola alle richieste europee.
È evidente che, in prospettiva, la risposta alla fame energetica di un pianeta sempre più popolato non può essere l’accaparramento delle fonti disponibili, comunque inesorabilmente limitate. Senza dimenticare gli squilibri che, anche su questo fronte, interessano le diverse aree del mondo: la maggior parte delle persone senza accesso alla rete elettrica sono le popolazioni rurali dell’Africa Subsahariana, con i suoi 580 milioni di abitanti.
Di fronte a uno scenario tanto complesso e critico, l’Europa ha finalmente cominciato a pensare più seriamente alla transizione verso le fonti rinnovabili, con l’obiettivo della decarbonizzazione entro il 2050. In Italia, il 37% degli investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza è destinato alla transizione ecologica.
«Si tratta di segnali importanti della volontà di andare in una direzione più sostenibile, sebbene siano tardivi e destinati a incidere poco a livello globale». Per il professor Romano Borchiellini, coordinatore dell’Energy Center del Politecnico di Torino, «questo momento di crisi deve spingerci a una riflessione più allargata sulla situazione attuale e sulle prospettive a breve e medio termine». A cominciare da una constatazione: «In un’ottica storica, i combustibili fossili sono e resteranno un fatto limitato. Negli ultimi duemila anni la loro presenza ha caratterizzato un brevissimo periodo, e – rinnovabili o no – tra duecento anni non ci saranno più».
Dunque la transizione energetica è una scelta obbligata, no? «Certo, ma è essenziale un vero cambio di mentalità, a livello politico ma anche di base, di opinione pubblica», sostiene Borchiellini. «Tradotto in pratica, significa non pensare in termini di un banale passaggio ad altri combustibili per continuare a consumare senza controllo: è necessario puntare a uno sfruttamento responsabile e alla riduzione dell’uso, grazie allo sviluppo di sistemi sempre più efficienti».
Una rivoluzione in cui ha un ruolo importante la politica, visto che «la gestione dell’energia, in quanto bene essenziale alla vita, deve essere sottratta alle logiche economiche», ma dove uno spazio preponderante deve essere occupato dagli stessi cittadini, chiamati a un consumo più consapevole. «In quest’ottica, una delle risposte più interessanti alla crisi attuale è il fiorire delle Comunità energetiche rinnovabili», racconta l’esperto. Parliamo di gruppi di singoli, enti locali o aziende che si mettono in rete per produrre autonomamente energia grazie a impianti da fonti non fossili.
«A definire formalmente questo nuovo soggetto giuridico è stata la direttiva europea 2018 del 2001, recepita in Italia l’anno scorso dal decreto legislativo Red II», spiega il coordinatore dell’Energy Center, in prima linea nella promozione di nuove Comunità grazie alla consulenza offerta a chi sceglie di imbarcarsi in quest’avventura. Che offre numerosi vantaggi, alle famiglie e a tutta la società: oltre all’abbattimento dei costi, si incentiva la penetrazione delle fonti rinnovabili, come il fotovoltaico, le biomasse o l’idroelettrico.
Pur restando connesso con la rete statale, poi, «il cittadino diventa lui stesso produttore e può anche rifornire il vicino, visto che queste realtà riuniscono soggetti, per esempio privati e aziende, che hanno profili di consumo molto diversi e a volte complementari».
Un modello virtuoso, che può rappresentare un’opportunità anche in alcune aree svantaggiate del mondo. Uno studio pubblicato l’anno scorso sulla rivista Sustainability del Multidisciplinary Digital Publishing Institute sottolineava che «oltre 600 milioni di africani continuano a non avere accesso all’elettricità e 890 milioni dipendono ancora, per cucinare o scaldarsi, da carburanti tradizionali dannosi per la salute». Ecco perché la ricerca, coordinata dall’Università di Nairobi e da quella sudafricana di Stellenbosch, analizzava l’esperienza di 19 Comunità energetiche in vari Paesi subsahariani: dalle mini-reti in Zambia a un villaggio alimentato a biogas e solare in Etiopia fino a vari progetti di autonomia energetica tra Sudafrica, Uganda e Namibia. Per concludere che questo modello, rafforzato dalla partecipazione di soggetti privati e istituzionali e da politiche incentivanti, «può rappresentare una via verso l’equità e la giustizia energetica nell’Africa Subsahariana». Non a caso, la stessa Banca Mondiale lo ha adottato nel contesto della campagna Lighting up Africa, che finanzia la realizzazione di sistemi autonomi ad alimentazione solare per portare l’elettricità a case, scuole, strutture sanitarie: iniziative di successo sono già state avviate in numerosi Paesi, soprattutto nell’Africa Occidentale e nel Sahel.
Per il professor Borchiellini, spostare l’attenzione sulle aree ancora vittime della povertà energetica è strategico: «Noi continuiamo a leggere la situazione con gli occhi dell’Occidente, convinti di trainare le tendenze globali, ma non è più così. Tanti Paesi non vogliono rinunciare a quel benessere che noi abbiamo raggiunto inquinando: è ora di pensare, come sostiene Papa Francesco, a un nuovo modello di sviluppo. Perché qualunque scelta compiamo oggi, avrà effetti sul futuro di tutti».