La Sartoria sociale di Palermo, che ha realizzato le confezioni dei panettoni del Pime, punta all’inserimento socio-lavorativo di migranti, ex detenuti e persone con problemi mentali
Quando ha fondato l’associazione “Al Revés” – che in spagnolo significa “al contrario” – Rosalba Romano voleva guardare la realtà da un altro punto di vista: «Così problemi che sembrano insormontabili diventano risolvibili». Da quella prima esperienza nel 2012 è nato il progetto della Sartoria sociale, un laboratorio nel cuore di Palermo dove viene data una seconda possibilità ad abiti e persone.
La realtà è cresciuta molto in dieci anni e ora si occupa di tante attività diverse: dal recupero di tessuti alla vendita di abiti su misura o di seconda mano, dalla produzione di oggetti artigianali al packaging in stoffa per aziende, dalle lezioni di cucito in casa-famiglia ai laboratori sul riciclo tessile nelle scuole. I collaboratori sono migranti, ex detenuti e persone che stanno facendo percorsi di giustizia riparativa, disabili e individui con problemi psichiatrici. Sono loro cha hanno rivestito di tessuti colorati anche i panettoni solidali del Pime.
«In realtà, tutto è iniziato da un viaggio in Africa – specifica Rosalba, oggi responsabile del laboratorio, ma che si definisce in primis una volontaria -. Avevamo adottato un bambino a distanza con l’associazione Aleimar ed eravamo partiti per un campo di volontariato in Benin. Avevamo notato che c’erano tantissimi sarti di strada con un loro banchetto e una macchina da cucire. Tornati a Palermo ci siamo chiesti se anche tra i migranti africani non ci fosse qualcuno che sapeva cucire».
Rosalba lavorava già come assistente sociale, ma non aveva idea che ci fossero molti sarti esperti, che operavano con metodi e tecniche diversi rispetto a quelli tradizionali italiani. All’inizio era puro volontariato: i finanziamenti arrivavano da singoli cittadini o al massimo dal Comune. Poi è diventata un’attività commerciale, ma in Sicilia mandare avanti gli affari può essere una sfida quotidiana: «I nostri prezzi sono più alti perché la nostra è una realtà di legalità. Vogliamo dare il buon esempio, ma non sempre è facile».
Dopo tre traslochi, nel 2017 la Sartoria sociale ha trovato spazio in un ex magazzino confiscato alla mafia e oggi intrattiene relazioni con diversi enti del territorio, tra cui Libera, AddioPizzo, Fondazione Progetto Legalità Onlus, Accademia delle Belle Arti e persino Tcbl Textile & Clothing Business Labs, il network europeo delle imprese tessili che sperimentano nuove strategie di imprenditoria sociale.
Le persone che arrivano alla Sartoria sociale vengono segnalate da servizi esterni. Il lavoro è un trampolino di lancio per qualcos’altro, non l’approdo finale. E gli esempi di rinascita sono tantissimi. Una ragazza arrivata alla Sartoria da un ospedale psichiatrico, ad esempio, ha trovato lavoro come architetta in un’azienda di fornitori: «Si era presentata in stato catatonico. Qui da noi ha fatto i disegni per l’adeguamento dell’Apecar con cui ci spostiamo per vendere i nostri prodotti tessili», spiega Rosalba.
Un ragazzo, arrivato in Sicilia dal Sahel come minore non accompagnato, sognava, invece, di fare il sarto sin da piccolo: «Un giovane di un incredibile talento: oggi ha 23 anni e una bambina. Grazie al percorso ha trovato una certa stabilità economica e mentale, cosa non semplice dopo aver attraversato la Libia», commenta la responsabile. Ma l’azienda in cui era occupato è fallita durante la pandemia e ora è costretto a lavorare in nero per mantenere la famiglia.
Con la pandemia, anche la Sartoria sociale ha conosciuto molte difficoltà e il personale si è ridotto a una decina di persone. «È stato difficile dal punto di vista economico ma soprattutto umano, in particolare per i detenuti», continua Rosalba, riferendosi al progetto avviato nel 2013 nella sezione femminile del carcere Pignarielli di Palermo, dove erano attivi corsi di cucito per le donne.
Ma la Sartoria non si è scoraggiata e negli ultimi due anni si è lanciata nelle vendite on line, sviluppando un sito e un profilo Instagram. Nessuno è stato messo in cassa integrazione e oggi l’associazione non ha debiti. «Se non abbiamo ancora chiuso è perché ci ha protetto la Provvidenza!», ride Rosalba tra sé e sé. O forse è il fatto che alla Sartoria sociale si è costruito un ambiente in cui «tutti si sentono “normali”, si dimenticano i problemi, non ci sono capi, tutti facciamo qualsiasi lavoro e c’è grande attenzione alla storia di ogni persona. Teniamo al riscatto di ognuno». Una piccola impresa, un luogo di accoglienza, una possibilità di rinascita: guardandola al dritto o al rovescio, la Sartoria sociale è tutte queste cose. E già si pensa al futuro, con la speranza di promuovere più inclusione sociale, aprendosi ulteriormente alla disabilità.
Nella Bottega solidale del Centro Pime di Milano
I panettoni “vestiti” dalla Sartoria sociale di Palermo ma anche i prodotti dei monasteri, della cooperazione, della lotta alle mafie: li puoi trovare nel negozio del Centro Pime di Milano o su negozio.pimemilano.com