Da 43 anni, la dottoressa Mariella Anselmi vive e lavora a Esmeraldas, una delle procince più povere e pericolose dell’Ecuador, dove ha ottenuto importanti risultati grazie soprattutto ai promotori di salute locali
Il sogno di una studentessa universitaria che diventa l’impegno di un’intera vita. È l’esperienza della dottoressa Mariella Anselmi, 71 anni di Monteforte d’Alpone, provincia di Verona, che, dopo essersi laureata in Medicina all’Università di Padova e specializzata in Malattie tropicali alla Sapienza di Roma, è partita come volontaria per l’Ecuador: 43 anni dopo è ancora lì. «Sono felicissima di questa mia vita – esclama -. Rifarei tutto sempre». Anche se tutto non sempre è stato facile, anzi! «Mi sento fortunata di aver potuto accompagnare nel tempo le comunità di Esmeraldas, di condividere i momenti di successo e anche quelli critici, di poterne vedere il cambiamento. Non è stato facile. Ma ho lavorato con persone che, come me, non hanno mai mollato. Ancora adesso è un’esperienza molto bella».
La dottoressa Anselmi – che ha ricevuto il Premio Cuore Amico in occasione della Giornata missionaria mondiale – ricorda volentieri come, sin dall’inizio, fosse mossa da motivazioni di fede: l’impegno in parrocchia, le molte attività culturali, le iniziative di solidarietà per appoggiare i missionari… «Poi, durante l’università, ho cominciato a pensare che avrei voluto fare il medico nelle periferie del mondo, dove non c’era accesso alla sanità e si moriva per problemi facilmente prevenibili».
Partita nel 1979 per l’Ecuador come volontaria del Movimento Laici America Latina (Mlal), avrebbe dovuto rimanere due anni, che però si sono moltiplicati all’infinito. Volontaria del Mlal sino al 1994, ha poi continuato come operatrice del vicariato apostolico di Esmeraldas senza una specifica affiliazione, ma con molti contatti, relazioni e gruppi di appoggio sia in Italia che nel mondo. Ancora oggi la dottoressa Anselmi continua la sua opera di rafforzamento dei sistemi sanitari della provincia di Esmeraldas, una delle più difficili del Paese, e di miglioramento complessivo delle condizioni di vita della gente.
«Ho sempre lavorato con un’équipe locale, con le comunità e soprattutto con un gruppo straordinario di promotori di salute senza i quali non sarebbe stato possibile ottenere grandi risultati. Anche l’Organizzazione mondiale per la sanità ha riconosciuto che è stato un successo comunitario». Successo su molti fronti perché sono tante le sfide affrontate nel corso di tutti questi anni. Ma con alcuni punti di riferimento imprescindibili: ascolto, formazione, condivisione. «I primi tempi – ricorda – mi sono dedicata alla conoscenza della realtà e delle comunità che vivono principalmente lungo i tre grandi corsi d’acqua di questa regione: si tratta principalmente di popolazioni di afrodiscendenti, di indios chachi che vivono lungo il fiume Cayapas, e di indios awa nel distretto di San Lorenzo, alla frontiera con la Colombia. Abitano in foresta, hanno un accesso limitati al mondo esterno e spesso nessuna assistenza medica. Con loro abbiamo cercato di individuare i problemi di salute prevalenti e di trovare insieme il modo di affrontarli, in base alle risorse disponibili con valutazioni periodiche per verificarne l’impatto affinché l’intervento sanitario diventasse anche un’occasione di crescita e sviluppo di tutta la comunità».
In questi anni sono state combattute alcune malattie molto diffuse come l’oncocercosi, un’infezione da filaria, che può provocare cecità, dichiarata eliminata dall’Oms nel 2014, dopo 25 anni di trattamenti. Anche sul fronte della malaria sono stati fatti molti passi avanti sia in termini di prevenzione che di cura. Inoltre, grazie a un lavoro comunitario di vigilanza, è stato eliminato il pian, una malattia molto contagiosa che provoca lesioni cutanee e ulcere, colpendo soprattutto bambini e adolescenti. «Con gli afrodiscendenti – continua la dottoressa – stiamo lavorando da una decina d’anni su ipertensione e diabete che sono in esplosione nella zona. Serve innanzitutto un lavoro educativo per prevenire queste malattie, ma garantire anche l’accesso ai farmaci che non sempre è facile in un Paese in crisi».
L’idea di fondo è che, a partire dai problemi di salute, la comunità arrivi ad assumersi le sue responsabilità e partecipi attivamente non solo al miglioramento delle condizioni sanitarie, ma al processo di crescita di tutti gli aspetti della vita sociale. Sin dall’inizio, la dottoressa Anselmi ha potuto contare sulla presenza di un’infermiera comasca, Rosanna Prandi, che pure lei vanta una presenza a Esmeraldas di ben 45 anni, e via via di un’équipe sempre più ampia e qualificata di infermiere che adesso portano avanti il grosso del lavoro. «Abbiamo un piccolo centro messo a disposizione dal vescovo, che serve principalmente per il coordinamento e la formazione. Non disponiamo di strutture, ma abbiamo contribuito a sviluppare il sistema sanitario nei distretti di Borbon e San Lorenzo».
Il vero punto di forza, però, sono i 75 promotori di salute che si sono formati nel tempo e che garantiscono una presenza capillare e costante anche nelle zone più remote e difficili da raggiungere. «Sono persone – ricorda con ammirazione – che hanno mantenuto il loro impegno che per molti è volontario; il loro è un supporto fondamentale sia per le comunità che per il personale dei centri sanitari».
«Quando sono arrivata – ricorda – ero l’unico medico, al di fuori di quelli dell’ospedaletto di Borbon. Adesso ci sono diversi centri sanitari lungo i fiumi ma i medici sono molto giovani e inesperti». Oggi la nuova grande sfida è monitorare e prevenire patologie e mortalità evitabili della popolazione femminile, in particolare legate alle gravidanze, e la malnutrizione dei bambini. «Anche in questi ambiti – spiega la dottoressa – abbiamo cercato di trovare insieme alle comunità le modalità migliori e più efficaci per intervenire. Le donne afro, ad esempio, partoriscono assistite dalle parteras; le chachi, invece, normalmente lo fanno con la mamma o la nonna; le awa con i mariti. Per ridurre le complicanze del parto e la mortalità materna e dei bambini alla nascita occorre lavorare in tre modi diversi, puntando sulle figure che sono presenti al parto e che possono avere un ruolo determinante».
Quanto alla malnutrizione, il problema è diminuito nel corso degli anni, ma è ancora diffuso soprattutto in relazione a problematiche sociali che spesso riguardano le madri: in alcuni casi si tratta di adolescenti che non hanno un adeguato supporto o di donne con problemi psichiatrici o di giovani mamme costrette a lasciare i figli alle nonne perché si trasferiscono in città in cerca di lavoro. I bambini, di conseguenza, non vengono seguiti adeguatamente e spesso sono malnutriti.
«Il più grande problema della nostra zona, tuttavia, non è sanitario, ma riguarda il narcotraffico – spiega la dottoressa -; nell’area di San Lorenzo, in particolare, il confine con la Colombia è segnato senza alcun controllo. A volte, ci sono scontri a fuoco. Qualche anno fa sono stati rapiti e uccisi tre giornalisti ecuadoriani che stavano lavorando su questo tema. Adesso c’è pure un problema di insediamento di narcotrafficanti sul territorio ecuadoriano, legati a cartelli messicani. Spesso sono in conflitto tra di loro e ci sono omicidi quasi tutti i giorni». La provincia di Esmeraldas è attualmente la più violenta del Paese anche a causa della presenza di gruppi criminali che chiedono il pizzo a negozi, bar, esercizi commerciali e recentemente anche ai medici che lavorano nell’area di San Lorenzo in cambio di una presunta “protezione”: arrivano a pretendere anche 500 dollari al mese che a volte aumentano. Questo sta provocando una fuga di dottori che subiscono minacce o ritorsioni.
«Sino ad ora – riflette la dottoressa – non è successo niente di grave al personale della Chiesa che resta un punto di riferimento importante anche per la vasta rete di scuole che gestisce. La maggior parte della gente è cattolica anche se ci sono diverse Chiese evangeliche con cui collaboriamo. Si fa comunità e si fa ecumenismo». Da luglio 2021, il vescovo è monsignor Antonio Crameri, membro della Società dei sacerdoti di san Giuseppe Cottolengo. Prima di lui, tutti i vescovi erano missionari comboniani. Monsignor Eugenio Arellano Fernández, in particolare, ha avuto un ruolo importantissimo anche per aver denunciato il disboscamento selvaggio, la distruzione della selva provocata dagli scavi minerari e i tanti problemi gravi della provincia di Esmeraldas. «È una Chiesa in parte missionaria e in parte formata da clero locale – fa notare la dottoressa -. Una Chiesa fatta soprattutto di comunità di cristiani che sono molto cresciute in questi anni in formazione e consapevolezza. Un popolo di Dio capace di dare una testimonianza grande in situazioni molto difficili. Anche per questo mi ritengo felice e fortunata di continuare a condividere la mia vita con loro».