Nel giorno simbolo della corsa agli acquisti pre-natalizi, uno studio delle Nazioni Unite rivela le ombre presenti nelle catene di approvvigionamento per rispondere alla domanda di consumi nell’Unione Europea: 1.2 milioni di nuovi schiavi, 4.200 incidenti mortali sul lavoro all’anno e il 40% delle emissioni di CO2 fuori dai confini europei per produrre ciò che acquistiamo.
Da ogni parte oggi siamo bombardati dalle promozioni per il Black Friday – il cosiddetto “venerdi nero”, il giorno che dà il via alla settimana di sconti record nato per incentivare gli acquisti a ridosso del periodo natalizio – che cade sempre l’ultimo venerdì di novembre, all’indomani della celebrazione negli Stati Uniti del Giorno del ringraziamento. Interi negozi in tutto il mondo vengono presi d’assalto per le super offerte su smartphone, elettrodomestici, capi abbigliamento, gioielli e tanto altro.
Ma di nero questo venerdi ha anche qualcos’altro: l’impatto che il consumismo estremo ha sui diritti umani e sul clima. A rivelarlo è uno studio condotto dalla Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite (SDSN) assieme all’Università di Sydney e alla Società tedesca per la cooperazione internazionale (GIZ) rilanciato dal sito francese Reporterre. La ricerca – dal titolo “Le ripercussioni internazionali delle catene di approvvigionamento dell’UE” – mostre come ogni anno i consumi della sola Unione Europea generino 1.2 milioni di schiavi e 4.200 incidenti mortali sul lavoro. Succede principalmente in Africa, nell’Asia meridionale e nell’Asia-Pacifico. Ma anche già nella vicina Turchia muore un lavoratore ogni quattro ore in un infortunio sul lavoro e casi di lavoro forzato in tutti i settori sono stati rilevati in Corea del Nord, Nigeria, Angola, specialmente nelle miniere dove spesso si verificano esplosioni che mettono a rischio la vita dei lavoratori. Miniere da cui si estraggono le materie prime con cui vengono prodotti gli oggetti che in questa giornata ci affolliamo a comprare in cerca dello sconto migliore. Inoltre, il 40% delle emissioni di gas a effetto serra generate per far fronte ai consumi europei hanno luogo fuori dai confini del continente.
«I risultati sono stati ottenuti combinando i dati dei flussi finanziari e commerciali con i dati satellitari che rilevano il lavoro forzato e le emissioni di CO2», spiegano i ricercatori. Dopo essersi concentrati sull’impatto dell’industria tessile e alimentare, hanno posto l’attenzione sui minerali fossili e grezzi come gas naturale, petrolio, uranio, rame, zinco, pietra, sabbia, fosfato e sale, i quali – estratti dal suolo e dai fondali marini – sono indispensabili per la produzione di beni e servizi di consumo che finiscono sui nostri mercati.
L’aspetto paradossale è che gravi problemi emergono anche dalle catene di approvvigionamento delle materie prime indispensabili per consentire lo sviluppo sostenibile e la transizione energetica e digitale (basti pensare ai veicoli elettrici e alle turbine eoliche): se riducono le emissioni da una parte del mondo, oggi di fatto lo minano da un’altra a causa dei relativi processi di estrazione e produzione che sono dannosi per l’ambiente e non solo. Del resto l’Europa – carente di risorse nel proprio suolo – dipende fortemente dalle importazioni: nel 2019 l’Unione ha consumato circa 2,7 volte in più dei minerali e 2,9 volte in più dell’energia fossile della quantità estratta all’interno delle sue frontiere.
«I nostri risultati sottolineano la necessità di ulteriori riforme nelle industrie minerarie e nelle politiche commerciali per sradicare la schiavitù moderna e altri impatti sociali e ambientali negativi e per implementare luoghi di lavoro sicuri per i lavoratori», annota lo studio. E così, durante una giornata dedicata agli acquisti, è bene riflettere anche su quello che accade per far sì che i prodotti che tanto desideriamo arrivino a noi consumatori finali.