In occasione della Giornata mondiale contro l’Aids del 1° dicembre, l’Onu mette in evidenza come le diseguaglianze economiche, sociali e di genere stiano rallentando la lotta alla pandemia. Di cui non parla (quasi) più nessuno
“Equalize” è una di quelle parole inglesi difficilmente traducibili in italiano: significa rendere più uguale, ma anche più equo. È lo slogan dell’Agenzia Onu per la lotta all’Hiv-Aids (UNAIDS), per la Giornata mondiale contro questa pandemia che si celebra il primo dicembre. E che anche quest’anno mette al centro il tema delle diseguaglianze. “Dangerous Inequalities”, infatti, è il titolo del nuovo rapporto, che ribadisce l’impatto negativo che le molte iniquità e sperequazioni presenti nel mondo hanno anche sulla lotta a questa terribile pandemia, di cui, peraltro, si parla sempre meno.
L’Hiv-Aids è il grande dimenticato di tante battaglie – anche mediatiche – che negli anni sono state portate avanti per contrastare una malattia che continua a colpire 38,4 milioni di persone nel mondo, la maggior parte delle quali (25,6 milioni) concentrate in Africa subsahariana.
Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, l’HIV-Aids continua a essere un grave problema di salute pubblica. Sono nel 2021, circa 650 persone sono morte per cause correlate al virus: vanno ad aggiungersi agli oltre 40 milioni di morti provocati dalla malattia da quando è comparsa. Malattia che, peraltro, continua a diffondersi: lo scorso anno, 1,5 milioni di persone hanno contratto il virus.
Ma tutti gli sforzi sia di prevenzione che di cura si sono ridotti in maniera preoccupante, a anche a causa di un’altra pandemia, quella di Coronavirus, che ha concentrato su di sé tutte le attenzioni e moltissimi fondi.
Diseguaglianze di genere
Il rapporto “Dangerous Inequalities” conferma quella che è stata una costante in tutti questi anni: ovvero che le disuguaglianze di genere e varie forme di discriminazioni nei confronti delle donne rendono quest’ultime non solo più vulnerabili, ma frenano anche il contrasto alla diffusione della pandemia
In particolare, in Africa subsahariana, le donne hanno rappresentato il 63% delle nuove infezioni da HIV nel 2021. Adolescenti e giovani donne (tra i 15 e i 24 anni) hanno una probabilità tre volte maggiore di contrarre il virus rispetto ai loro coetanei. Anche perché spesso vengono escluse dai sistemi educativi troppo presto. Secondo UNAIDS, consentire alle ragazze di completare l’istruzione secondaria riduce la loro vulnerabilità all’infezione fino al 50%. Purtroppo, a causa della pandemia di Covid-19 e delle misure messe in atto anche dai governi africani per contrastarla, le scuole sono rimaste a lungo chiuse provocando un’enorme dispersione scolastica. Questo ha riguardato soprattutto moltissime bambine e ragazze che spesso sono state forzate a matrimoni precoci. Inoltre, in 19 Paesi africani, programmi specifici di prevenzione combinata per adolescenti e giovani donne sono operativi solo nel 40% dei luoghi ad alta incidenza di HIV.
«Dobbiamo affrontare le varie disuguaglianze che le donne sono costrette ad affrontare – ha dichiarato Winnie Byanyima, direttore esecutivo dell’UNAIDS -. Nelle aree ad alto diffusione di HIV, le donne sottoposte a violenza da parte del partner hanno fino al 50% in più di probabilità di contrarre l’HIV. In 33 Paesi, dal 2015 al 2021, solo il 41% delle donne sposate di età compresa tra 15 e 24 anni ha potuto prendere le proprie decisioni sulla salute sessuale. L’unico percorso efficace per porre fine all’AIDS, raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile e garantire salute, diritti e prosperità condivisa è un percorso che mette al centro le donne. Le organizzazioni e i movimenti per i diritti delle donne sono già in prima linea a svolgere questo coraggioso lavoro. I leader devono sostenerli e apprendere da loro».
Anche i bambini, tuttavia, sono particolarmente vulnerabili e a rischio. Secondo l’Oms, solo il 52% dei bambini che vivono con l’HIV è sottoposto a cure salvavita. Ed è anche da loro che bisogna ripartire perché, sottolinea l’Oms: «Se possiamo mostrare progressi nel porre fine alle nuove infezioni tra i bambini e garantire che tutti ricevano antiretrovirali di qualità (ARV), abbiamo maggiori speranze e possiamo garantire un maggiore impegno politico per porre fine all’AIDS in tutte le popolazioni entro il 2030».
Maggiore impegno
A livello globale, il 70% delle nuove infezioni da HIV avviene tra persone emarginate e spesso criminalizzate. «Possiamo porre fine all’AIDS solo aumentando i servizi e rimuovendo le barriere strutturali, lo stigma e la discriminazione delle popolazioni chiave in ogni Paese», insiste l’Oms. Oltre a questo, tuttavia, occorre accrescere anche la disponibilità, la qualità e l’adeguatezza dei servizi sia in termini di prevenzione che di trattamento dell’HIV-Aids, in modo che tutti possano davvero accedervi.
E anche se moltissimi passi avanti sono stati fatti in questi anni sia nella prevenzione che nell’accesso ai farmaci, molto resta ancora da fare. Purtroppo, però, sensibilità e consapevolezza sono diminuite invece di aumentare, specialmente sin questi tempi, in cui anche le campagne di coscientizzazione e prevenzione, portate avanti in maniera capillare e massiccia in tutta l’Africa (e altrove) si sono drasticamente ridotte.
Secondo UNAIDS, durante i due anni segnati dal Covid-19 e da altre crisi globali, i progressi contro la pandemia di HIV-Aids hanno conosciuto un forte rallentamento, così come sono molto diminuite le risorse specialmente nei contesti in cui i servizi di base – come test, cure e nuove tecnologie – non sono adeguatamente disponibili.
Mettere fine all’Hiv-Aids è uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile contenuti nell’agenda 2030, ma l’attuale situazione non lascia ben sperare in un suo raggiungimento, considerate le gravi disuguaglianze economiche, sociali e culturali che ancora permangono – ed anzi si accentuano – un po’ ovunque nel mondo. «Possiamo porre fine all’AIDS, se poniamo fine alle disuguaglianze che lo perpetuano – ha dichiarato Winnie Byanyima -. In questa Giornata mondiale abbiamo bisogno che tutti siano coinvolti nella condivisione di questo messaggio perché tutti siano al sicuro e per proteggere la salute di tutti».
In Italia
Anche nel nostro Paese i dati non sono rassicuranti. Negli ultimi anni, infatti, sono diminuite le nuove diagnosi di HIV, in particolare nel 2020 quando i nuovi casi segnalati sono stati 1.303, a causa dell’emergenza Covid-19. Di contro, è aumentata la quota di persone che non sa di essere positiva all’HIV e che alla nuova diagnosi presenta sintomi o patologie HIV correlate. Un dato allarmante è la proporzione di soggetti con diagnosi di AIDS (malattia conclamata), che hanno scoperto meno di 6 mesi prima la propria sieropositività: 80% nel 2020 rispetto al 48% nel 2000.
Inoltre, se dal 2016 è diminuito lievemente il numero di persone con una infezione sessualmente trasmessa (IST), ad eccezione di clamidia e gonorrea (quest’ultima raddoppiata), la prevalenza di infezione da HIV tra le persone con una IST confermata nel 2019 è circa quaranta volte più alta di quella stimata nella popolazione generale italiana.
Altra criticita, è la mancanza – o l’inadeguatezza – dei fondi. In Lombardia, ad esempio, ci sono 23 Case-alloggio (con 250 posti) destinate ai malati di Aids e a persone fragili con multiproblematiità sanitarie, ovvero la metà di quelle attualmente presenti in Italia, ma le rette stabilite con una delibera delle Regione Lombardia nel 2005 non sono mai state aggiornate. Non solo: queste strutture sono state praticamente “dimenticate” durante l’emergenza Coronavirus e ora, con la crisi in Ucraina e l’aumento dei costi dell’energia, si trovano in grande difficoltà e alcune a rischio chiusura.
Un’esperienza trentennale
Tra le molte iniziative realizzate in questi decenni in Italia, il centro “Don Isidoro Meschi”, comunità residenziale che accoglie uomini e donne che convivono con il virus Hiv, celebra proprio in questi giorni i 30 anni di servizio. Aperto da Caritas Ambrosiana il 27 novembre 1992 ha sede attualmente a Villa Aldé a Lecco.
In tre decenni, il centro “Don Meschi” ha assistito 242 persone, prestando loro cure mediche e psicologiche e accompagnandole nei percorsi di reinserimento sociale e lavorativo. Inizialmente, le persone affette da Hiv, spesso molto giovani e con legami familiari spezzati, avevano un’alta probabilità di non sopravvivere alla malattia. L’accoglienza post-ricovero ospedaliero le accompagnava con gli strumenti delle cure palliative sino al momento della morte; ben 53 dei 75 decessi registrati al “Don Meschi” si sono verificati nei primi 10 anni di funzionamento della struttura. In seguito, l’avvento di farmaci anti-Hiv sempre più potenti ha cambiato le strategie di cura e le prospettive di vita dei malati; chi si cura presto e bene, anche se non guarisce del tutto, può condurre un’esistenza normale.
«Il centro “Don Meschi” e la rete Caritas – sottolinea Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana – devono proseguire, e anzi per certi versi devono potenziare, l’impegno informativo, educativo e culturale che hanno espresso sin dagli inizi. Occorre sensibilizzare le giovani generazioni, in chiave preventiva, per renderle consapevoli e responsabili, in modo da abbattere il tasso di trasmissione del virus, elevato soprattutto nella fascia d’età 25-29 anni. Bisogna mantenere alta la guardia nei confronti di pregiudizi e forme di stigma sociale sempre possibili e striscianti: i tempi della ghettizzazione dei malati di Aids sono alle spalle, ma non bisogna mai smettere di curare le paure, che hanno sempre ricadute culturali e producono discriminazioni. Infine, è opportuno non smettere di sollecitare le istituzioni e le comunità, ecclesiali e civili, perché favoriscano percorsi di cura, accoglienza e reintegrazione sociale, efficaci e rispettosi della dignità dei malati».