L’incontro con un uomo musulmano è l’occasione per padre Fabrizio Calegari, missionario del Pime in Bangladesh, per riflettere sul celibato e su un modo diverso di essere “padre!
Un giorno mi trovo a casa di Rafat, un amico musulmano che conosco da tempo. Stavolta c’è anche il suo papà: lo incontro per la prima volta, mi stringe la mano affabile. Rafat è praticante convinto ma ha un animo aperto, me lo ha dimostrato tante volte in questi anni. Mentre siamo seduti a parlare, le donne portano lo yogurt dolce, biscotti e tè. La loro ospitalità è sempre molto familiare. «Perché voi preti cristiani non vi sposate?», mi chiede all’improvviso il papà di Rafat facendomi quasi andare di traverso il tè. Eccola qua la domanda, ci si arriva sempre, prima o poi: «Allah ci ha comandato di sposarci, per far continuare la stirpe. Anche nella vostra Bibbia c’è scritto, non è vero?». «Vero, anche il nostro Dio ha detto: “Crescete e moltiplicatevi”. Anche per noi cristiani il matrimonio è importantissimo. Però Gesù a qualcuno fa anche una proposta diversa e chiede di vivere come lui e di non sposarsi». «È sbagliato», taglia corto il vecchio. «Non si può vivere senza matrimonio. Sarebbe una vita sterile». Umanamente Mi verrebbe da dargli ragione 100 volte. Lo sa Dio che fatica è stata ed è, talvolta, vivere la verginità come dono. Ma, appunto, sarebbe una lettura solo umana.
Provo a spiegare: «Se Allah è davvero così grande e onnipotente, non può forse bastare da solo a riempire il cuore di un uomo che voglia vivere per lui?».
L’uomo sembra toccato dalla mia provocazione: «Certo che può bastare. Allah è l’Immenso, il Sublime». Gli racconto allora di quella volta che all’ostello arrivò il postino con un pacco dall’Italia. Mi trovò sul campo da pallone con i ragazzi mentre mangiavamo il nostro piatto di riso. «Chi sono questi ragazzi?», mi chiese. «Sono i miei figli!», risposi tra il serio e il faceto.
«Sono 130. Lei quanti ne ha?». Era talmente sbigottito da non riuscire a rispondere: alzò solo due dita per indicare il numero. Poi finalmente mi chiese: «Ma… 130 figli e una moglie sola?». Noi scoppiammo a ridere e lui non capì perché.
Cerco di chiarire al vecchio: «Vede, non sposarsi non significa per forza restare sterili. Mettere al mondo dei figli non è poi così complicato, per noi maschi. Essere padri però significa una cosa diversa e solo Dio ce ne può dare la possibilità. È il suo amore che rende fecondo il nostro. Se fossi stato sincero, a quel postino avrei dovuto dire non 130 ma molti di più. Perché è così che mi sento ed è così che Dio mi vuole: un padre per tanti. E più sono, meglio è. Non basta avere figli se poi si è aridi, come tronchi secchi».
Non so più se sto parlando a lui o a me stesso. Penso al mio celibato e a come finisca di avere senso se non diventa una paternità effettiva e affettiva. Sono convinto che oggi, per tutti, una delle sfide sia proprio sulla fecondità. L’amore moltiplicato. Abbiamo un bisogno disperato di gente che generi vita, che sia capace – con i propri talenti messi a frutto, le scelte, l’amicizia – di contagiare l’esistenza degli altri, creando un circolo virtuoso di bene, di bello. Di speranza. Il papà di Rafat fa un cenno verso destra con la testa: segno, nella gestualità bengalese, che l’ho persuaso, almeno un po’.