Il pontefice emerito scomparso il 31 dicembre scorso ha sempre affidato parole molto forti ai missionari. Lo ricordiamo con un suo discorso che pronunciò nel 2006 sull’urgenza di raccontare l’amore senza confini di Gesù ai popoli del mondo
Su Benedetto XVI – il Papa emerito spentosi il 31 dicembre scorso a 95 anni – sono state spese tante parole. Alcune preziose per custodire il cuore del magistero di Joseph Ratzinger, altre troppo schiacciate sul chiacchiericcio. Vogliamo ricordarlo qui con una sua riflessione in cui affrontava un tema per noi essenziale: la centralità dell’annuncio di Gesù Cristo e il suo rapporto con la costruzione di un mondo più giusto. Sono parole tratte da un’omelia pronunciata il 10 settembre 2006 nella “sua” Monaco di Baviera, durante il viaggio in quelli che definiva «i luoghi nei quali ho imparato a credere ed a vivere».
Vorrei raccontare un po’ delle mie esperienze negli incontri con i vescovi di tutto il mondo. La Chiesa cattolica in Germania è grandiosa nelle sue attività sociali, nella disponibilità ad aiutare ovunque ciò si riveli necessario. Durante le loro visite, i vescovi, ultimamente quelli dell’Africa, mi raccontano con gratitudine della generosità dei cattolici tedeschi e mi incaricano di rendermi interprete di questa loro gratitudine. Anche i vescovi dei Paesi Baltici mi hanno parlato di come i cattolici tedeschi li hanno aiutati nella ricostruzione delle loro chiese gravemente fatiscenti a causa dei decenni di dominio comunista.
Ogni tanto, però, qualche vescovo africano mi dice: «Se presento in Germania progetti sociali, trovo subito le porte aperte. Ma se vengo con un progetto di evangelizzazione, incontro piuttosto riserve». Esiste in alcuni l’idea che i progetti sociali siano da promuovere con massima urgenza, mentre le cose che riguardano Dio o addirittura la fede cattolica siano piuttosto particolari e meno prioritarie. Tuttavia l’esperienza di quei vescovi è proprio che l’evangelizzazione deve avere la precedenza, che il Dio di Gesù Cristo deve essere conosciuto, creduto ed amato, deve convertire i cuori, affinché anche le cose sociali possano progredire, affinché s’avvii la riconciliazione, affinché – per esempio – l’Aids possa essere combattuto affrontando veramente le sue cause profonde e curando i malati con la dovuta attenzione e con amore.
Il fatto sociale e il Vangelo sono semplicemente inscindibili tra loro. Dove portiamo agli uomini soltanto conoscenze, abilità, capacità tecniche e strumenti, là portiamo troppo poco. Allora sopravvengono ben presto i meccanismi della violenza, e la capacità di distruggere e di uccidere diventa prevalente, diventa la capacità per raggiungere il potere – un potere che una volta o l’altra dovrebbe portare il diritto, ma che non ne sarà mai capace. In questo modo ci si allontana sempre di più dalla riconciliazione, dall’impegno comune per la giustizia e l’amore. I criteri, secondo i quali la tecnica entra a servizio del diritto e dell’amore, allora si smarriscono; ma è proprio da questi criteri, che tutto dipende: criteri che non sono soltanto teorie, ma che illuminano il cuore portando così la ragione e l’agire sulla retta via.
Le popolazioni dell’Africa e dell’Asia ammirano, sì, le prestazioni tecniche dell’Occidente e la nostra scienza, ma si spaventano di fronte ad un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell’uomo, ritenendo questa la forma più sublime della ragione, da insegnare anche alle loro culture. La vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l’utilità a supremo criterio per i futuri successi della ricerca.
Cari amici, questo cinismo non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti noi desideriamo. La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno comprende il timor di Dio – il rispetto di ciò che per l’altro è cosa sacra. Ma questo rispetto per ciò che gli altri ritengono sacro presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor di Dio. Questo senso di rispetto può essere rigenerato nel mondo occidentale soltanto se cresce di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente per noi ed in noi.
La nostra fede non la imponiamo a nessuno. Un simile genere di proselitismo è contrario al cristianesimo. La fede può svilupparsi soltanto nella libertà. Ma è la libertà degli uomini alla quale facciamo appello di aprirsi a Dio, di cercarlo, di prestargli ascolto. Noi qui riuniti chiediamo al Signore con tutto il cuore di pronunciare nuovamente il suo “Effatà!”, di guarire la nostra debolezza d’udito per Dio, per il suo operare e per la sua parola, e di renderci capaci di vedere e di ascoltare. Gli chiediamo di aiutarci a ritrovare la parola della preghiera, alla quale ci invita nella liturgia e la cui formula essenziale ci ha insegnato nel Padre nostro.
Il mondo ha bisogno di Dio. Noi abbiamo bisogno di Dio. Di quale Dio abbiamo bisogno? Nella prima lettura, il profeta si rivolge a un popolo oppresso dicendo: «La vendetta di Dio verrà» (Is. 35,4). Noi possiamo facilmente intuire come la gente si immaginava tale vendetta. Ma il profeta stesso rivela poi in che cosa essa consiste: nella bontà risanatrice di Dio. E la spiegazione definitiva della parola del profeta, la troviamo in Colui che è morto per noi sulla Croce: in Gesù, il Figlio di Dio incarnato che qui ci guarda così insistentemente. La sua “vendetta” è la Croce: il “No” alla violenza, “l’amore fino alla fine”. È questo il Dio di cui abbiamo bisogno.
Non veniamo meno al rispetto di altre religioni e culture, non veniamo meno al profondo rispetto per la loro fede, se confessiamo ad alta voce e senza mezzi termini quel Dio che alla violenza ha opposto la sua sofferenza; che di fronte al male e al suo potere innalza, come limite e superamento, la sua misericordia. A Lui rivolgiamo la nostra supplica, perché Egli sia in mezzo a noi e ci aiuti ad essergli testimoni credibili.
Benedetto XVI e il Pime
Negli anni del suo pontificato Benedetto XVI ha mostrato la sua vicinanza al Pime in tante occasioni, dal magistero sulla missione ai viaggi apostolici in Brasile e in Camerun (dove sono presenti i nostri missionari), alla nomina episcopale nel 2005 di monsignor José Negri, oggi vescovo di Santo Amaro in Brasile. Ma ci sono stati tre momenti particolari che vale la pena di ricordare più degli altri. Il primo è il sostegno nei giorni difficili dell’estate 2007, durante il rapimento di padre Giancarlo Bossi nelle Filippine. «Il mio pensiero va ogni giorno a padre Bossi – disse pubblicamente il Pontefice durante il sequestro -. Speriamo, preghiamo il Signore che ci aiuti». E dopo la liberazione una delle immagini che restano nella memoria è l’abbraccio tra Benedetto XVI e padre Giancarlo sul palco della spianata di Montorso a Loreto, davanti ai giovani riuniti per l’incontro con il Papa a cui il missionario del Pime aveva appena detto: «Lasciatevi rapire dai vostri ideali». La stessa vicinanza Benedetto XVI l’avrebbe poi dimostrata all’Istituto in un altro momento drammatico, quello dell’uccisione di padre Fausto Tentorio, il martire più recente della storia del Pime, colpito a morte anche lui nell’isola filippina di Mindanao il 17 ottobre 2011. In un messaggio di condoglianze inviato in quell’occasione il Pontefice scrisse che «la testimonianza di padre Fausto è stata quella di un buon sacerdote, ardentemente credente, che per molti anni si è posto al servizio del popolo filippino in modo coraggioso e instancabile».Ma Benedetto XVI è stato, infine, anche il Papa che ha donato al Pime la gioia della beatificazione di padre Clemente Vismara, missionario dell’Istituto per più di 70 anni in Birmania (l’attuale Myanmar). Portano infatti la sua firma sia il decreto sulle virtù eroiche, promulgato il 15 marzo 2008, sia quello per il riconoscimento del miracolo che aprì la strada alla beatificazione, avvenuta a Milano in piazza del Duomo il 26 giugno 2011.