Il Paese è scosso dalle proteste dei sostenitori dell’ex presidente Pedro Castillo, arrestato per aver cercato di sciogliere il parlamento. Già decine i morti negli scontri
I l Perù è nel caos. A metà gennaio erano già cinquanta le vittime degli scontri tra manifestanti antigovernativi e forze di sicurezza che stanno scuotendo il Paese latinoamericano. Era la mattina del 7 dicembre quando il presidente in carica del Perù, Pedro Castillo, faceva chiamare una troupe televisiva per comunicare alla nazione alcune sue prossime disposizioni: scioglimento del Congresso (il corrispettivo del nostro Parlamento, che detiene il potere legislativo) e nuove elezioni per formarne un altro con anche il compito di elaborare una nuova Costituzione; riorganizzazione del sistema della Giustizia; imposizione della legge marziale con tanto di coprifuoco dalle 22 alle 4.
Per capire il contenuto del suo comunicato, occorre dare uno sguardo ai fatti dell’ultimo anno e mezzo. Pedro Castillo, un insegnante di scuola primaria proveniente dalla sierra, con nessuna esperienza politica alle spalle se non un passato da sindacalista, riesce ad arrivare al ballottaggio delle elezioni presidenziali del 2021 come candidato del partito di sinistra Perù Libre. Sua contendente è Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore Alberto ed esponente del partito di destra Fuerza Popular. Quest’ultima, al suo terzo ballottaggio consecutivo, risulta di nuovo perdente e il 28 luglio, festa dell’indipendenza peruviana, Castillo assume l’incarico di presidente. Tuttavia il suo governo si caratterizza per essere piuttosto fragile: in 16 mesi si alternano la bellezza di 78 ministri, circa uno a settimana! Non solo: in questi mesi la Fiscalía (il Pubblico ministero) avvia diversi processi nei suoi confronti, con accuse che vanno dalla corruzione all’essere addirittura a capo di una organizzazione criminale. Il Congresso cerca di sfiduciare Castillo per due volte, ma senza esito. Una terza votazione di sfiducia era prevista proprio per il 7 dicembre, con buone probabilità di successo.Con il suo messaggio in televisione, dunque, il presidente ha provato ad anticipare la mossa del Congresso (secondo un potere concessogli dalla Costituzione) oltre a puntare a resettare il sistema della Giustizia che, a suo dire, non gli aveva permesso di governare inventando ripetute accuse e cause giudiziarie a suo carico.
In seguito alla dichiarazione di autogolpe, nel giro di due ore 19 ministri si dimettevano mentre la terza mozione di sfiducia veniva approvata dal Congresso, destituendo il presidente per “incapacità morale”. Castillo, insieme al primo ministro, cercava di raggiungere l’ambasciata messicana per ottenere protezione ma veniva tradito dagli uomini della sua scorta che lo consegnavano all’esercito.
Oggi, dunque, l’ormai ex presidente è in carcere, con una condanna preventiva a 18 mesi con l’accusa di ribellione e tentato colpo di Stato. Al suo posto si è insediata quella che era la sua vice, Dina Boluarte, un’avvocata diventata così la prima presidente donna del Perù e la sesta persona a ricoprire tale ruolo in altrettanti anni, dal 2016.E il popolo peruviano come ha reagito? Già dal giorno successivo all’autogolpe, in alcune zone del Paese, in particolare sulla sierra e nella regione di Lima, la gente ha iniziato a scendere in strada per manifestare il proprio sostegno a Castillo. Le folle chiedono a gran voce la liberazione dell’ex presidente, lo scioglimento del Congresso – ritenuto da tempo corrotto e non più rappresentante del popolo ma degli interessi delle lobby economiche -, elezioni anticipate (il mandato dei parlamentari scadrebbe nel 2026), modifiche all’attuale Costituzione. Quest’ultima rappresenta la dodicesima in 200 anni di indipendenza del Paese e fu scritta da Alberto Fujimori nel 1993, con l’intento di legittimare il suo golpe e la continuazione della sua dittatura. Il libero mercato viene posto come fondamento dell’ordinamento costituzionale, favorendo una visione dei rapporti sociali e politici basata su dinamiche economiche, che, negli anni, ha prodotto pratiche di corruzione e alimentato le disuguaglianze sociali. È dal 2000, cioè da quando Fujimori non è più al governo, che i peruviani cercano invano di cambiare questa Costituzione.
La voce popolare chiede di andare a votare nel 2023. Tuttavia, l’anticipo delle elezioni non è previsto dalla Carta costituzionale vigente, che per questo andrebbe riformata. Un processo che però richiede tempi non brevi: una volta scritto il nuovo testo, esso deve essere approvato dalla maggioranza assoluta del Congresso e poi sottoposto a referendum popolare. Solo in seguito si potrà decidere la data delle elezioni. Mentre i parlamentari non sembrano intenzionati a lasciare le loro poltrone (nelle scorse settimane hanno votato a maggioranza per elezioni nell’aprile 2024) la protesta popolare, concretizzatasi in cortei e blocchi stradali, si inasprisce ogni giorno di più, con la polizia che reagisce anche molto duramente.
A Pucallpa, città dell’Amazzonia peruviana nella quale attualmente viviamo e operiamo come missionari laici, la mobilitazione è stata scarsa e non ha provocato danni seri. Si stanno, invece, già vedendo le conseguenze dei blocchi stradali: la frutta e la verdura scarseggiano sia nei bancali dei mercati rionali che in quelli dei due supermercati della città; i distributori di benzina iniziano a chiudere e quelli che ancora dispensano carburante vengono presi d’assalto dai molteplici guidatori di motokar, con file lunghe decine di metri. Inevitabile conseguenza di un sistema totalmente centralizzato nel quale ogni approvvigionamento parte ed è controllato da Lima.
La speranza è che governo e popolo riescano a trovarsi a metà strada: il primo deve accelerare i tempi della riforma costituzionale e delle elezioni, il secondo deve saper pazientare e accettare i tempi burocratici necessari per poter finalmente esprimere il proprio potere democratico: il voto.