Rifugiati politici e semplici cittadini, reti giovanili e associazioni di donne: la massiccia diaspora iraniana all’estero si è mobilitata per sostenere la rivolta in corso da cinque mesi nel Paese: «Il popolo è più unito che mai»
Il volto del 31enne Mehdi Zare Ashkzari, morto dopo venti giorni di coma a seguito delle brutali torture subite in carcere, è uno dei tanti simboli della rivolta che scuote l’Iran ormai da oltre cinque mesi. Abbiamo imparato a conoscere i lineamenti di Mahsa Amini, la giovane picchiata a morte dalla polizia morale lo scorso settembre per non avere indossato correttamente il velo, e poi quelli di tanti altri ragazzi – addirittura bambini – che proprio in seguito all’assassinio di Mahsa hanno deciso di scendere in piazza al grido di “Donna, vita, libertà”, sfidando la repressione del regime e pagando purtroppo con la vita il loro coraggio. Sono già almeno 750 i martiri della grande mobilitazione che, estesa all’intero Paese, sta dimostrando al governo degli ayatollah che esiste un Iran non più disposto a tollerare l’oscurantismo e la violenza su cui il potere si regge da oltre quarant’anni.
Il volto di Mehdi, tuttavia, simboleggia anche un altro Iran: quello che, a breve o a lungo termine, per ragioni politiche o professionali, di studio o familiari, decide di trasferirsi lontano dalla madrepatria. Secondo le stime, sarebbero almeno cinque milioni i cittadini che vivono all’estero e, in questi mesi, la loro voce si è alzata forte e unita come mai prima a sostegno della rivoluzione.
Di «un nuovo Iran globale» ha parlato il professore della University of Illinois Asef Bayat, sottolineando la rilevanza di un movimento che, a differenza del passato, ha unito gruppi e rivendicazioni diversi «per un bene più grande». Una causa che ha mobilitato da subito anche moltissimi dei circa quindicimila cittadini di origine persiana che hanno scelto come seconda casa l’Italia.
Mehdi, arrivato a Bologna nel 2015 per frequentare Farmacia, era uno degli studenti che ogni anno sbarcano nel nostro Paese, attraverso gemellaggi accademici o borse di studio, per la propria formazione universitaria o post laurea. Due anni fa il giovane era tornato a Yazd, la sua città natale, per stare vicino alla madre malata. Ma la determinazione a fare la sua parte per provare a cambiare un Paese meraviglioso, sfigurato da un regime sanguinario, non gli ha lasciato scampo: lo scorso 30 dicembre è morto a causa delle torture inflittegli in carcere, dove era stato rinchiuso per aver preso parte alle proteste.
Anche Hooman Soltani, ormai sedici anni fa, era venuto in Italia da studente. «Dopo la laurea in Design a Teheran, decisi di iscrivermi alla specialistica al Politecnico di Milano», racconta. Oggi è un imprenditore nel campo del design e della ristorazione, oltre che uno chef di successo (tre anni fa ha vinto la sfida televisiva “Cuochi d’Italia”).
«La mia scelta di partire è stata legata al clima asfittico che si respirava nel Paese – ricorda -. Siamo cresciuti con la paura di ciò che ci sarebbe potuto succedere se avessimo detto o fatto qualcosa di sbagliato. Una volta ero con un’amica a chiacchierare in un parco e la polizia morale ci ha arrestati… un’esperienza terribile, e qualunque iraniano può raccontare aneddoti simili. Dopo la laurea a pieni voti, pensavo che avrei trovato presto un buon impiego e invece mi resi conto che, non essendo un sostenitore del governo, per me non c’era spazio. Ai colloqui di lavoro non mi chiedevano le mie esperienze professionali, ma se mia madre indossasse il velo e se pregassi sei volte al giorno».
In Italia, Hooman e la moglie Sepideh, incontrata qui, hanno finalmente sperimentato nuove opportunità: conclusa la specializzazione, hanno creato una società di design e arredamento. «Sentivamo però forte il desiderio di fare conoscere agli italiani la bellezza della nostra cultura, e abbiamo deciso di farlo attraverso il cibo: è nato così il primo locale che abbiamo aperto nel centro di Lecco», racconta Soltani.
Oggi, tuttavia, la coppia ha capito che la denuncia indiretta non è più sufficiente e che è necessario dare voce alla lotta dei connazionali in patria: «Almeno una volta alla settimana andiamo a portare la nostra testimonianza in Comuni, parrocchie, scuole», racconta il titolare del nuovo Cardamomo Persian Palace, fuori dal quale campeggiano uno striscione con lo slogan della rivolta e la bandiera iraniana. «Purtroppo la repressione violenta del dissenso non è certo una novità, ma ora, anche grazie alla capillare testimonianza dei social, non è più possibile negare i crimini del governo: la comunità internazionale deve applicare misure concrete». Che non colpiscano però il popolo, ma i responsabili del regime di terrore: «In questi vent’anni a essere danneggiata dalle sanzioni è stata solo la gente comune. Dovrebbero bloccare i patrimoni dei pasdaran, le guardie della rivoluzione khomeinista del 1979, che hanno in mano l’economia del Paese, non impedire a noi iraniani di aprire un conto corrente!».
Ma il popolo è unito in questa mobilitazione? «La grande maggioranza dei cittadini è contro il regime, e un’altra quota lo avverserebbe ma ha le mani legate perché lavora per il governo, per esempio la polizia e i militari, che pure spesso hanno parenti stretti tra i manifestanti. Un discorso simile vale per i commercianti, che in molti casi non hanno potuto aderire agli scioperi o per necessità concreta o per la paura di ritorsioni delle autorità. Tanti pensano: “Se mi portano via, chi darà da mangiare alla mia famiglia?”».
Per questo è così importante il sostegno forte di chi, fuori dal Paese, è libero di alzare la voce contro gli abusi. In prima linea, in Europa, ci sono reti di rifugiati politici e singoli cittadini, movimenti femminili e associazioni giovanili. In 13 mila, a gennaio, hanno marciato a Strasburgo per chiedere al Parlamento europeo di inserire i pasdaran nella lista delle organizzazioni terroristiche: una rivendicazione lanciata tra i primi dal deputato iraniano-svedese Alireza Akhondi.
Un passaggio simbolico importante secondo Samirà Aldarani, portavoce dei Giovani iraniani in Italia. Nata 27 anni fa da genitori entrambi rifugiati politici, Samirà racconta di avere maturato presto la coscienza delle difficili condizioni delle sue coetanee in Iran.
«Già alle medie vedevo le ragazzine obbligate a indossare il velo fin dai nove anni, mentre al liceo ricordo che in Italia facevamo le occupazioni e le manifestazioni, assolutamente vietate in Iran. Poi ho cominciato a leggere le notizie delle impiccagioni dei dissidenti, degli arresti, delle violazioni dei diritti delle minoranze e delle donne. Mi rendevo conto di quante cose per me scontate non lo fossero affatto per le iraniane: scegliere liberamente cosa indossare ma anche quali libri leggere o che facoltà frequentare, o poter viaggiare e decidere della propria vita senza il consenso di un tutore maschio».
Finché la ragazza, oggi studentessa di Medicina all’ultimo anno, sentì «la responsabilità di usare gli spazi che la democrazia mi offriva per fare conoscere all’opinione pubblica il volto oscuro del regime».
Un impegno rafforzatosi in occasione dell’ultima ondata di proteste nel Paese: «Come Giovani iraniani in Italia cerchiamo prima di tutto di diffondere al grande pubblico, attraverso i social media e gli organi di stampa, le notizie che ci arrivano dai protagonisti delle rivolte, i nuclei affiliati alla resistenza organizzata ma anche semplici cittadini», racconta Samirà, che di recente ha ricevuto minacce di morte per il suo attivismo. «Prendiamo parte poi a manifestazioni, sit-in, eventi pubblici, per sensibilizzare la politica italiana sui passi necessari per isolare il regime degli ayatollah».
Quali sono le richieste alla comunità internazionale? «In primo luogo il condizionamento dei rapporti bilaterali al rispetto dei diritti umani, poi la chiusura delle ambasciate, che non rappresentano il popolo e sono spesso usate per tracciare le attività degli iraniani all’estero, ma anche l’inserimento del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica nell’elenco delle organizzazioni terroristiche, visto che parliamo del principale organo di repressione violenta del dissenso».
Una repressione che, a differenza del passato, non è riuscita a spegnere questo inizio di rivoluzione. Che – secondo il regista e scrittore iraniano di origine curda Fariborz Kamkari – «ha già vinto dal punto di vista culturale». Kamkari, autore tra l’altro del film “I fiori di Kirkuk” e del recente libro “Ritorno in Iran” (La nave di Teseo), vive da decenni in Italia. E ammette che la diaspora iraniana «è rimasta sorpresa da un movimento che, per la prima volta, unisce centro del Paese e periferie, uomini e donne, classi sociali e gruppi etnici e religiosi diversi».
Non solo. Pur sottolineando il valore della solidarietà globale degli iraniani all’estero, l’artista mette in guardia da un doppio rischio: «Che il baricentro della rivolta si sposti artificiosamente fuori dall’Iran, creando l’illusione che il destino del Paese dipenda dalle azioni della comunità internazionale, ma anche che le varie componenti ideologiche esistenti nella diaspora cerchino di appropriarsi della rivoluzione e di strumentalizzarla». Invece, «il sostegno esterno deve essere sempre volto a dare voce alle istanze di chi, dall’interno, sta rischiando la propria vita per il cambiamento».
E in cosa si potrà concretizzare questo cambiamento? «Prima di tutto si tratta di una svolta culturale epocale, che c’è già stata: in questo senso gli ayatollah hanno perso e sono sicuro che la spinta a passare a un governo musulmano ma laico avrà un impatto anche nel resto del mondo islamico», afferma Kamkari, che in tutte le sue opere affronta anche temi politici e sociali e in particolare getta una luce sulle tragiche vicissitudini del suo popolo curdo.
Nella pratica, il primo obiettivo resta quello di «libere elezioni democratiche, dove ogni componente politica abbia uno spazio di rappresentanza. Poi, saranno gli iraniani, l’80% dei quali è costituito da persone sotto i 40 anni che oggi non hanno alcuna voce in capitolo, a scegliere finalmente il proprio futuro». Un sogno che ancora si scontra con l’apparato militare dei pasdaran: «Ma nessun regime totalitario alla fine resiste quando il popolo decide di cambiare».