A Città del Messico padre omar Sotelo Aguilar dirige un grande Centro multimediale in un contesto dove religiosi e giornalisti sono nel mirino della criminalità organizzata. «Ma la comunicazione può cambiare le cose», dice
Essere un sacerdote giornalista dove annunciare il Vangelo e denunciare le contraddizioni della società rappresentano le due missioni più pericolose in assoluto. È l’esperienza di padre Omar Sotelo Aguilar, energico prete messicano della Società di San Paolo che da anni è in prima linea nel raccontare il sistema criminale che intrappola il suo Paese. In Messico sono stati 14 i giornalisti uccisi solo l’anno scorso, mentre nell’ultimo decennio ben trenta religiosi hanno perso la vita per il loro impegno a fianco della gente.
Ma «l’informazione può aiutare a cambiare le cose». Padre Omar ne è convinto da sempre, fin da quando, da ragazzino, sentì per la prima volta questa “doppia vocazione”: «Visto che amavo giocare a calcio, un sacerdote del seminario diocesano di Città del Messico mi invitò a partecipare a un torneo. Per errore, però, finii al seminario dei Paolini e lì, oltre che dall’enorme campo da pallone, rimasi folgorato dalla tipografia gestita dai preti: la congregazione fondata da don Giacomo Alberione infatti ha la missione di diffondere il messaggio di Gesù proprio attraverso i mezzi della comunicazione sociale».
Da quell’incontro, tutto il resto venne di conseguenza: il giovane Omar iniziò la sua formazione per diventare sacerdote, mentre in lui cresceva il fascino per quella che definisce «l’arte del giornalismo», in particolare investigativo. E, fresco di ordinazione, iniziò a lavorare con la conferenza episcopale messicana, per la quale contribuì a far nascere il Centro Cattolico Multimediale: «In origine si trattava di un progetto per unire gli sforzi comunicativi delle oltre cento diocesi messicane – racconta – ma presto iniziammo ad aggregare un gruppo di professionisti indipendenti con l’obiettivo di lavorare sui temi più caldi dell’attualità».
Oggi il Centro, di cui padre Sotelo Aguilar è il direttore, rappresenta un punto di riferimento a livello nazionale – e non solo – sull’informazione di denuncia, in particolare delle violenze ai danni degli operatori ecclesiali. Un ruolo confermato anche da riconoscimenti importanti, come il Premio nazionale di giornalismo vinto per la sezione “Diritti umani” grazie a un’inchiesta sulla “Tragedia del sacerdozio in Messico”.
Perché sostiene che la comunicazione ha il potere di cambiare la società?
«In questi anni abbiamo realizzato vari progetti giornalistici, anche attraverso video o cortometraggi, per denunciare ciò che non va in Messico. Abbiamo prodotto per esempio una serie di tredici documentari intitolata “Hermano narco” (“Fratello narco”) con l’obiettivo di dare voce a testimoni che sfortunatamente sono caduti nella trappola del crimine organizzato, per dimostrare che rispondere alla violenza con altra violenza non fa che moltiplicare le sofferenze. L’unica via per cambiare le cose è attingere a una delle qualità più proprie dell’essere umano, cioè la capacità di perdonare: il perdono non è solo un concetto religioso, ma è l’unico sentimento umano che può rompere le barriere dell’odio. Così, con il nostro lavoro, abbiamo cercato di fare arrivare questo messaggio a quegli uomini e donne le cui vite sono state sconvolte dal crimine, per cercare di riumanizzare ciò che era stato disumanizzato».
Il giornalismo cattolico ha un messaggio o un punto di vista specifico da offrire?
«Nel caso di cui parlavo poco fa, è chiaro come usare un linguaggio che tocchi l’esperienza tanto delle vittime quanto dei colpevoli possa trasformare il contesto. Ecco, questo è precisamente il nostro compito: incidere nella vita delle persone, nell’opinione pubblica, nella società. Poi, naturalmente, il nostro impegno si concentra anche sulla denuncia degli attacchi alla Chiesa, visto che nell’ultimo decennio il Messico si è confermato uno dei Paesi più pericolosi per i religiosi. Solo nel periodo del governo di Andrés Manuel López Obrador, cioè poco più di quattro anni, abbiamo avuto già sette sacerdoti assassinati, oltre ad altri otto che sono sopravvissuti ad aggressioni».
Perché questo accanimento?
«La Chiesa in Messico è stata spesso attaccata, fin dai tempi della guerra “cristera” del 1929, quando si è cercato di eliminarla dal territorio nazionale. Oggi non ci troviamo di fronte a una vera e propria persecuzione, eppure la situazione è quasi più pericolosa di cent’anni fa, perché si prendono di mira i religiosi per seminare nella società la cultura della morte, del terrore e della corruzione. Mi spiego: in Messico quando si assassina un sacerdote non si colpisce solo una persona ma un’intera comunità, in mezzo alla quale egli funge da stabilizzatore sociale. I religiosi infatti non prestano solo un servizio pastorale e spirituale ma portano avanti anche un’opera educativa, di tutela della salute, di protezione dei diritti umani. Pensiamo solo all’enorme lavoro a fianco delle masse di disperati che dal Centroamerica raggiungono il Messico col miraggio degli Stati Uniti e che spessissimo finiscono nelle maglie della criminalità organizzata. Ecco: quando si elimina un sacerdote si destabilizza la società».
E tutto questo avviene in un contesto di grande fragilità delle istituzioni pubbliche…
«In molte parti del Paese si sono ormai instaurati una narcocultura, una narcoeconomia e persino un narcogoverno: il crimine organizzato è riuscito a infiltrare organizzazioni come l’esercito, la marina e persino il governo federale e quelli statali. Per dare un’idea della situazione, basta sapere che l’ex segretario messicano della Pubblica sicurezza, Genaro Garcia Luna, è attualmente detenuto negli Stati Uniti per associazione a delinquere per traffico di droga: avrebbe ricevuto milioni di dollari in tangenti dal cartello di Sinaloa del “Chapo” Guzmán. Ci sono governatori, deputati, ministri legati alla criminalità e chi denuncia questa anomalia, che impatta direttamente sul progresso del Paese, finisce nel mirino. L’anno scorso si sono registrate più di 850 minacce di morte a sacerdoti e io conosco personalmente moltissimi giornalisti che hanno subito questi stessi attacchi».
Perché spesso non si trovano i colpevoli di aggressioni e omicidi?
«Ci sono diversi fattori. Da una parte, la violenza è così tanta – più di 100 mila desaparecidos e 350 mila vittime a causa della criminalità organizzata – che le istituzioni di sicurezza pubblica non riescono a tenere il passo. Ovviamente poi c’è anche l’aspetto politico: cito solo il caso del cardinale Juan Jesús Posadas Ocampo, l’arcivescovo di Guadalajara assassinato nel 1993 per volontà del cartello di Tijuana per la sua inesausta lotta contro il narcotraffico. Un cardinale ucciso in un aeroporto internazionale, e trent’anni dopo non abbiamo un solo colpevole detenuto per questo delitto! Un monumento all’impunità. E così nell’80% dei casi le inchieste sugli omicidi di sacerdoti non hanno portato a nulla. Un quadro in cui sono evidenti anche l’incapacità e la mancanza di preparazione delle forze di sicurezza».
Anche lei è stato minacciato più di una volta: ha paura?
«Certo, siamo a rischio, ma purtroppo in questo Paese – in particolare in alcune aree – chiunque è esposto in qualche modo alla violenza: ogni messicano ha paura. Noi tuttavia che siamo impegnati nella comunicazione e nell’evangelizzazione abbiamo l’obbligo e il privilegio di continuare ad annunciare e denunciare. È vero, ci esponiamo, ma qualcuno deve pur farlo, no? E io amo quello che faccio. Il crimine organizzato cerca di farci stare zitti e di intrappolarci nella cultura del silenzio: noi dobbiamo essere la voce – come dice il profeta – che grida nel deserto, incidendo nell’opinione pubblica per cambiare le cose. Il Messico è un posto bellissimo, e non merita ciò che sta attraversando».