La persistenza del sufismo, corrente mistica dell’islam, con le sue manifestazioni culturali e artistiche, mostra un Paese lontano dall’immaginario di repressione religiosa, povertà culturale e arretratezza
Difficile che un viaggio in Pakistan non porti all’incontro con luoghi della tradizione sufi, la corrente mistica dell’islam che qui vede un lignaggio di santi, filosofi, letterati e poeti giunto fino a oggi, con grandi confraternite e istituzioni culturali dove sono ancora vive tradizioni artistiche ad essi legate. Come, ad esempio, la musica devozionale qawwali, portata al culmine interpretativo e alla notorietà all’estero da Nusrat Fateh Ali Khan (protagonista tra l’altro di feconde collaborazioni con artisti occidentali come Sting, Peter Gabriel, Pearl Jam).
La persistenza della mistica sufi e delle manifestazioni ad essa associate mostra come esista un Pakistan lontano dall’immaginario consolidato all’estero di repressione religiosa, povertà culturale e irrisolvibile arretratezza. Di isolamento, anche. Invece, come per il complesso della sua storia e della sua tradizione, il Pakistan condivide con l’intero Subcontinente indiano anche la tradizione sufi. Anzi, ne è oggi la sede principale con centinaia di siti e opere che ricordano una sequela di maestri e discepoli che ha avuto origine sette secoli fa.
Con il 96% di popolazione musulmana, il Paese subisce, più che la sua identità religiosa, le sue contraddizioni. Tanti fattori – povertà, settarismo, basso livello d’istruzione – concorrono a lasciare spazio all’estremismo religioso. Tuttavia la resistenza è forte, e non solo da parte delle minoranze che cercano nuove vie di partecipazione mentre chiedono tutela e garanzia del diritto.
La presenza della tradizione mistica ed emozionale dell’islam è distante dall’intransigenza dottrinale che spesso contraddistingue l’identità sunnita. Per questo i mausolei al centro di imponenti dargah, sedi di confraternite che contano milioni di aderenti o simpatizzanti, finiscono a volte nel mirino, con attentati devastanti sul piano delle vittime ma anche su quello della coesione nazionale.
Come recentemente confermato da un ministro del governo del Sindh, la più meridionale tra le quattro province del Paese, «questa è la terra dei sufi e non a caso il Sindh è noto come Bab-ul-Islam, porta dell’islam». La diffusione di questa esperienza religiosa, che ha avuto un ruolo importante nell’accoglienza della fede musulmana nel Subcontinente, ha avuto una direttrice geografica da Sud verso Nord. Dagli approdi sul Mare d’Oman e dalle carovaniere tra il Grande deserto indiano e quello iranico, attraverso le terre di antica urbanizzazione del Sindh e quelle desolate del Beluchistan, dall’VIII secolo il messaggio dei sufi ha risalito il corso dell’Indo fino alle fertili pianure del Punjab.
Grande “fonte” di questa espressione dell’islam lontana dal rigorismo delle scuole teologiche sunnite e più facilmente cosmopolita è stato il mondo iranico, sciita, con il ruolo delle imponenti manifestazioni devozionali, con il valore del trasferimento di conoscenza da maestro a discepolo, fino alla possibilità di una profezia in grado di realizzarsi pienamente se affidata a personalità eccezionali.
Tuttavia arabo della Mecca fu, secondo la tradizione, Abdullah Shah Ghazi, il cui sacrario si trova presso la spiaggia di Clifton, a Karachi. Ghazi, “il guerriero”, è comunemente ritenuto parte della discendenza di Ali, cugino e genero del profeta Maometto, e se questo lo avvicina alla corrente sciita, la sua prossimità al Profeta lo rende forse il santo più venerato del Pakistan. D’esempio ancora per molti, al punto che si dice che anche Benazir Bhutto, l’influente leader politica assassinata nel dicembre 2007, ne fosse seguace.
Nonostante la loro saggezza e i toni spesso carichi di emotività e passione con cui hanno comunicato, molti pir (le guide, i maestri del sufismo) sono state personalità forti, a volte volubili. Le guide turistiche locali amano ricordare la figura di Madho Lal Husain, uno dei più noti santi sufi di Lahore, il quale dopo un lungo studio comunicò di avere scoperto il segreto di Dio. Per dimostrarlo, gettò una copia del Corano in un pozzo e quando la folla cominciò ad avvicinarsi minacciosa gridando all’eresia, chiamò il libro che tornò nella sua mano asciutto e intatto. Per festeggiare, si abbandonò ad eccessi indossando abiti rossi (da qui l’appellativo lal, rosso , colore rimasto nei vessilli sufi), provocando scandalo ma senza che qualcuno – intimorito dai suoi poteri – osasse intervenire.
La sequela dei sufi è eterogenea. I discendenti per parentela o discepolanza dei santi sono visti con grande considerazione e godono di privilegi, anche per le rendite garantite da offerte, donazioni e gestione dei beni e terreni loro affidati. Di fatto, anche loro fanno parte del sistema di tipo feudale che governa il Paese e che per alcuni aspetti contribuisce alla sua stagnazione. All’opposto, tra i devoti che affollano i mausolei nelle ricorrenze della morte del santo fondatore vi sono i fakir, gli asceti itineranti che hanno scelto una vita di rinunce e vagabondaggio.
Restano accese la pratica devozionale quotidiana e ancor più quella del giovedì, con seguaci vicini e lontani del santo che accedono al sacrario passando dai cortili dove spesso sono disposte file di tombe di discepoli e benefattori. Una volta entrati, girano attorno alla sepoltura recitando preghiere e invocazioni. Molti toccano la grata che circonda il monumento, altri disperdono petali di fiori e palline di zucchero e depongono drappi che vengono periodicamente sostituiti. Abitudini che in generale i sunniti considerano manifestazioni pagane, ma che creano un’atmosfera insieme mistica e materiale a cui può associarsi l’esperienza estatica, propiziata da musica e canti.Tutto si amplifica nelle ricorrenze della morte del santo o del maestro, spesso vista come “matrimonio” (urs) con Dio. Dagli immensi mausolei che sovrastano i vicoli della città vecchia a Bhit Shah, Multan, Lahore, Peshawar, alle piccole strutture disperse per le campagne, è l’intensità della devozione a rendere unici questi eventi che non distinguono tra provenienza, censo o genere. Così è anche per il mausoleo di Uch Sharif dedicato a Bibi Jawindi, maestra spirituale del XV secolo, fatto costruire da un devoto mecenate in un’area oggi designata a ottenere il riconoscimento di patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco, come quella che a Multan include le tombe monumentali di Shah Rukn-e-Alam, Bahahuddin Zakharia e Shah Shams Sabzwari.
Il traguardo di superare le differenze passa anche dal dialogo con altre espressioni religiose. Sull’esempio di Lal Shahbaz Qalandar, originario di Tabriz in Persia e arrivato a Sehwan (oggi Sehwan Sharif) nel 1274 in fuga dalla furia dei Mongoli e dalla caduta del califfato abbaside. Qui, come a Multan già sotto l’influenza islamica dopo la prima invasione araba, Qalandar predicò con altri mistici itineranti a indù e buddhisti utilizzando per le sue poesie e i suoi inni il persiano, ma dialogando con la popolazione nella lingua locale, con modalità vicine alla sensibilità delle altre fedi. Questo gli aprì il cuore degli abitanti e aprì le porte dell’odierno Pakistan all’esperienza sufi.
«In questa terra che ha visto la predicazione di Shah Abdul Latif si respirano pace e tranquillità. Qui arrivano persone da tutto il Paese per chiedere benessere e cercare una risposta spirituale ai loro problemi – sottolinea ancora il ministro del Sindh ricordando la figura del mistico del XVII secolo, unico tra i santi più venerati nato e vissuto in quello che è oggi il Pakistan, e tumulato a Bhit Shah -. Qui i seguaci di ogni scuola di pensiero, setta e religione sono liberi di pregare secondo le proprie credenze, purché riconoscano rispetto e onore a ogni essere umano».