Con oltre sette milioni di migranti è la seconda ondata al mondo dopo quella dei siriani. Un esodo che dura da anni a causa del collasso economico del Paese. E che vede la Chiesa del Roraima in prima linea per offrire dignità e integrazione
Nonostante le migrazioni siano un tema attuale a ogni latitudine, in America Latina c’è una crisi umanitaria su cui non si accendono i riflettori del mondo: quella che spinge i venezuelani a lasciare in massa il proprio Paese. Migliaia di persone fuggono non a causa di persecuzioni o guerre, ma per il collasso socio-economico della nazione, che va avanti ormai da anni.
Per dimensioni quella del Venezuela è la seconda ondata migratoria al mondo dopo quella della Siria: secondo alcuni dati pubblicati nel novembre 2022 la crisi ha già costretto 7,13 milioni di cittadini a cercare un rifugio in altri Paesi dell’America Latina. La situazione socio-politica, l’inflazione a livelli record (i dati ufficiali parlano di un tasso annuo del 157%), il deterioramento delle condizioni economiche, la scarsità di cibo, l’insicurezza pubblica, la mancanza di assistenza sanitaria, la violazione dei diritti umani: sono tutti motivi che spingono la gente a lasciare il proprio Paese. E dal 2014 a oggi sono già più di 388 mila quelli che hanno attraversato il confine con il Brasile.
Angelo, un avvocato venezuelano, è fuggito insieme alla moglie nel 2018 in cerca di condizioni migliori di vita, lasciando temporaneamente dietro di sé un figlio. «Nessuno vuole abbandonare il proprio Paese – racconta -, la famiglia, la casa, i beni, le amicizie. Parte della mia vita è rimasta lì. Ci siamo laureati, abbiamo lavorato, abbiamo iniziato a risparmiare. Ma i soldi che guadagniamo oggi non bastano più per fare la spesa».
Dalla sua città natale ha comprato un biglietto dell’autobus che li ha portati a Santa Elena de Uairen, al confine con il Brasile. Non tutti i venezuelani possono permettersi come Angelo un viaggio in autobus: alcuni percorrono centinaia di chilometri a piedi, per poi attraversare la frontiera arrivando a Pacaraima, nello Stato del Roraima, la porta di ingresso per i venezuelani in Brasile.
Per la mia tesi di dottorato ho visitato questa località, studiando il tema dell’accoglienza che trovano queste persone disperate. A Pacaraima ho trovato campi profughi gestiti con professionalità e umanità grazie all’ Operação Acolhida, un’importante iniziativa di cooperazione umanitaria, condotta e coordinata dal governo federale del Brasile con il sostegno dell’Unhcr, di altre agenzie delle Nazioni Unite e di oltre 100 tra enti religiosi e ong. Nacque nel 2016 come un’iniziativa della Pastoral Universitária del Roraima. Ricorda il gesuita padre Ronilson Braga, allora assistente diocesano: «Di fronte all’arrivo dei venezuelani realizzammo un’analisi di quanto stava accadendo: conoscere la realtà per discernere e poi agire».
L’Operação Acolhida si snoda oggi intorno a tre direttrici: la prima è la presenza alla frontiera. Al confine di Pacaraima avviene un primo screening durante il quale ogni venezuelano riceve la carta d’identità del rifugiato, cure mediche e le vaccinazioni necessarie. La seconda fase è l’accoglienza in strutture di accoglienza a Pacaraima o a Boa Vista (sempre nel Roraima), con fornitura di pasti, prodotti per l’igiene personale, corsi base di portoghese, formazione e animazione del tempo libero, oltre all’assistenza sanitaria di base. L’ultima fase è la redistribuzione, ovvero la gestione logistica e operativa del trasferimento di migranti e rifugiati dal Roraima ad altre città del Brasile, mirando a migliori opportunità per il loro inserimento socio-economico nel Paese. Il viaggio è gratuito e di solito viene effettuato dall’esercito brasiliano o dalle compagnie di trasporti. Secondo i dati più recenti da aprile 2018 vi sono stati 82.822 beneficiari di questo programma, distribuiti tra 872 diverse municipalità del Brasile.
Questo sistema di accoglienza, identificazione e integrazione dei rifugiati in Brasile può essere considerato un punto di riferimento a livello mondiale. La scelta di fornire documenti a tutti incoraggia i venezuelani a lavorare legalmente e previene situazioni di irregolarità o forme di schiavitù. E le stesse aziende e i datori di lavoro sono incentivati ad andare oltre un atteggiamento pietistico, per scoprire che tra gli immigrati vi sono persone preparate accademicamente e professionalmente, con un buon livello di scolarizzazione. Questo aiuta l’integrazione nella società.
Maria Suely Pereira Correa – brasiliana ma nata in Venezuela e laureata in Ingegneria – oggi è la coordinatrice della Pastoral Universitária del Roraima. Sottolinea quanto sia importante guardare al fenomeno migratorio come a un’opportunità: «Vogliamo che se ne colga la ricchezza: uno scambio di culture in tutte le loro dimensioni, dalle lingue fino alla gastronomia. Ma ci sono persone che si ostinano a vederlo solo come un problema». Eppure anche uno studio accademico intitolato “L’economia del Roraima e il flusso venezuelano” ha constatato i benefici economici portati alla regione: dall’analisi dei dati ufficiali, è stata verificata la crescita del commercio al dettaglio e delle esportazioni, con un aumento del 25% della riscossione dell’Imposta sulla circolazione di beni e servizi (l’equivalente dell’Iva italiana, ndr) tra la fine del 2018 e la prima metà del 2019.
L’accoglienza dei rifugiati in Brasile non è opera solo delle grandi ong: dalla casa di Maria José, una donna di 56 anni del Maranhão, negli ultimi cinque anni sono passati circa 1.200 venezuelani. «La Pastoral Universitária ha trovato un tetto a più di 7 mila persone – racconta -. Arrivano con una piccola borsa del supermercato dentro alla quale non c’è quasi nulla. Molte volte hanno solo un capo di abbigliamento, qualcuno arriva a piedi nudi. Il cortile della mia casa è stato “il palco” per tanti dolori, tanti colori, tante feste, tante tristezze».
Anche in questa operazione di accoglienza, non mancano le difficoltà. Nel marzo 2022, il ministero della Giustizia brasiliano ha emesso un’ordinanza che ha vietato l’ingresso attraverso la frontiera a Pacaraima per combattere la diffusione del Coronavirus. Questo ha portato alla sospensione delle richieste di asilo per i venezuelani e alla minaccia di espulsione per quanti non fossero già stati regolarizzati in territorio brasiliano. Con le frontiere chiuse, molti venezuelani hanno cominciato a percorrere rotte clandestine aumentando i rischi: «Le donne arrivate con le trochas (gli ingressi organizzati dai trafficanti attraverso i sentieri, ndr), sono state violentate. Alcune sono arrivate ferite, malate, in uno stato deplorevole», racconta suor Ana Maria da Silva, religiosa della congregazione delle Suore di San Giuseppe di Chambéry, originaria del Rio Grande do Sul. Da 4 anni vive a Pacaraima, dedicandosi all’accoglienza dei rifugiati. Suor Ana Maria ha fondato la Casa São José per accogliere donne e bambini vulnerabili che rischiavano di essere deportati o sfruttati. Questa struttura è un luogo di passaggio per situazioni di emergenza e può ospitare fino a 150 persone, per un soggiorno massimo di 30 giorni mentre aspettano di essere trasferite in altri luoghi in Brasile. Dalla sua apertura, la Casa ha assistito circa 2.500 donne e 8.000 bambini.
Tuttora restano molte incertezze sul futuro del Venezuela: ogni giorno circa 500 persone arrivano alla frontiera di Pacaraima, chiedendo asilo in Brasile. Lo Stato, la Chiesa brasiliana nelle sue varie articolazioni, insieme ad altre denominazioni cristiane, entità religiose e ong continuano a lavorare insieme per fare fronte ai bisogni più urgenti di queste persone. È grazie a questo impegno che il Brasile sta ripetendo il gesto del Cristo redentore, con “le braccia aperte”. Per integrare i fratelli del Venezuela nella propria società, grazie alla collaborazione tra le autorità, la Chiesa e la società civile.