Le violenze innescate dai discorsi xenofobi del presidente Saïed stanno spingendo gli immigrati subsahariani a lasciare il Paese nordafricano. Molti scelgono di affidarsi ai barconi, così come i tunisini in fuga dal collasso economico
Da unico esperimento di successo emerso dalle Primavere arabe a Stato pericolosamente vicino al fallimento. In cui, oltretutto, è scoppiata la “caccia al nero”. È stata la minaccia di una nuova crisi migratoria nel Mediterraneo a riportare la Tunisia sui radar dell’Europa. Dopo la ripresa delle partenze di barconi carichi di disperati proprio dalle coste del Paese nordafricano, i leader riuniti a Bruxelles hanno lanciato l’allarme: in mancanza di aiuti a Tunisi, si rischia un’implosione che potrebbe coinvolgere l’intera area.
La svolta autoritaria impressa di recente dal presidente Kaïs Saïed con il pretesto di porre un freno alla corruzione della politica ha smantellato i contrappesi democratici del sistema tunisino, senza peraltro riuscire ad arrestare la drammatica crisi economica, aggravata dalla pandemia di Covid-19, che ha spinto la maggioranza della popolazione sotto la soglia della povertà. Una situazione resa estrema dalle conseguenze del conflitto in Ucraina, da cui il Paese nordafricano importava la metà del suo fabbisogno di grano: l’aumento dei prezzi del cibo e in generale delle materie prime e la scomparsa dagli scaffali di molti beni di prima necessità hanno innescato una vera e propria emergenza sociale.
Ma a stare peggio di tutti, oggi, sono gli immigrati africani: ufficialmente 57mila persone di varie nazionalità, per quasi un terzo ivoriane, secondo i dati delle Nazioni Unite e dell’Osservatorio tunisino sulle migrazioni. Arrivate nel Paese come richiedenti asilo, per studiare o lavorare, oppure per tentare la traversata del Mediterraneo con il miraggio dell’Europa, nelle ultime settimane si sono trovate ad affrontare le conseguenze dell’intolleranza violenta innescata dai discorsi xenofobi del presidente. Durante una riunione del consiglio di sicurezza nazionale, lo scorso 21 febbraio, Saïed si è scagliato contro le «orde di migranti clandestini originari dell’Africa subsahariana» che sarebbo all’origine di «violenze e crimini» e ha attaccato chi vorrebbe «cambiare la composizione demografica della Tunisia» per farne «un altro Stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico».
Queste prese di posizione gravissime e irresponsabili, arrivate in un clima sociale già incandescente e avvelenato dalla propaganda nazionalista, hanno scatenato un’ondata di aggressioni contro i cittadini neri in diverse città: pestaggi per le strade, assalti ad abitazioni private, centinaia di arresti e rimpatri – più o meno volontari – nei Paesi d’origine.
«Oggi molti migranti sono nascosti nelle comunità di accoglienza dove hanno trovato riparo», racconta un’operatrice umanitaria che preferisce mantenere l’anonimato. «Da settimane non osano mettere piede in strada per andare a lavorare o all’università. Molti di loro hanno perso la casa e l’impiego e non hanno idea di che cosa li aspetti: per questo c’è chi, terrorizzato, si è rivolto all’ambasciata del proprio Paese d’origine per tornare in patria. Sono stati organizzati diversi voli speciali verso Costa d’Avorio, Mali, Guinea Konakry, Burkina Faso, Congo…».
Una fuga di massa che, in realtà, non tutti i tunisini stanno salutando con soddisfazione, anche per motivi pratici: «I subsahariani qui contribuiscono alla vita della società in modo determinante, soprattutto come manodopera per alcune professioni usuranti: operai edili, braccianti agricoli, camerieri, collaboratrici domestiche, spesso sfruttate», spiega ancora l’operatrice. Non solo: «Le università normalmente sono frequentate da migliaia di studenti africani mentre ora la maggior parte si sono svuotate e i docenti temono per il proprio posto di lavoro».
Tutto questo in un contesto generale di grave emergenza sociale, con il rischio concreto di fallimento dello Stato: la sospensione del prestito di 1,9 miliardi di dollari da parte dell’Fmi, motivata dal mancato taglio di salari pubblici e sussidi energetici, ha gettato il Paese nel panico.
«La povertà cresce giorno dopo giorno», racconta la nostra fonte. «Tutto è diventato costoso e la gente non ha i mezzi per vivere dignitosamente: è una lotta quotidiana. Molti tunisini, esasperati, oggi scelgono di salire sui barconi per tentare di raggiungere il Nord del Mediterraneo». Una scelta che per gli immigrati subsahariani sta diventando quasi obbligata: «Dopo i primi effetti del suo discorso incendiario, il presidente aveva promesso la regolarizzazione degli immigrati che si trovano nel Paese per motivi di studio, ma nella pratica questi annunci sono rimasti lettera morta. Abbiamo numerose testimonianze di studenti che si sono rivolti alle questure ma si sono visti rifiutare la carta di soggiorno. E sono molti i casi di persone che, dopo essersi registrate per i rimpatri volontari sulla scia del terrore per i pogrom, si sono poi rifiutate di tornare effettivamente nei propri Paesi e preferiscono tentare la sorte affidandosi al mare». Sulle bagnarole che si avventurano nelle acque incerte del Mediterraneo, così, oggi si ritrovano i reietti della Tunisia, bianchi e neri. Intanto, l’Europa cerca di trovare un modo per correre ai ripari, senza smettere di litigare sui ricollocamenti e di recriminare contro le ong, impegnate – almeno loro – a provare a salvare le vite dei migranti e l’umanità del Vecchio Continente.