La testimonianza di padre Paolo Andreolli, saveriano italiano, nominato da papa Francesco ausiliare nella grande città sul Rio delle Amazzoni, dove è presente anche il Pime. «Una metropoli che cresce rapidamente. E la Chiesa deve farlo con lei»
«Cuori ardenti, piedi in cammino». Per l’inizio del suo ministero episcopale ha scelto un motto propriamente missionario, legato alla pagina evangelica dei discepoli di Emmaus, padre Paolo Andreolli, missionario saveriano italiano, da poche settimane chiamato a diventare il vescovo ausiliare di Belém, la città del Nord del Brasile che si trova alla foce del Rio delle Amazzoni.
Originario di Noventa Vicentina, 50 anni, padre Andreolli è stato nominato il 1° febbraio scorso da Papa Francesco per la grande arcidiocesi dello Stato del Pará, dove lavorerà accanto all’arcivescovo Alberto Taveira Correa, brasiliano. Una Chiesa su un territorio abitato da 3 milioni di persone, con oltre 100 parrocchie e che vede anche la presenza dei missionari del Pime nella parrocchia di Santa Luzia a Jurunas e in quella di Santa Maria al Bairro Terra Firme.
La nomina di padre Andreolli è stata accolta con sorpresa e gratitudine da tutta la comunità dei missionari saveriani. «È una chiamata bellissima, ma con tante responsabilità – commenta il nuovo vescovo -. Il mio cuore batte molto forte. Come però mi ha detto il nunzio apostolico portandomi il messaggio del Papa, so di non essere solo. La Chiesa mi appoggerà. È il Signore che conduce la storia, lui è il Buon Pastore e niente ci mancherà».
Ordinato sacerdote nel 2000, dopo un’esperienza di animatore giovanile presso la casa dei saveriani di Desio, in Brianza, padre Andreolli è missionario in Brasile dal 2007. Per oltre nove anni è stato vicario parrocchiale di São Félix do Xingu e parroco di Nossa Senhora Aparecida de Tucumã, nel Sud del Pará. Nel 2017 è stato poi trasferito nella città di Belém, dove si è occupato di promozione vocazionale presso il seminario dei saveriani mentre era vicario parrocchiale presso la parrocchia di São Francisco Xavier. Ora è pronto a proseguire nel suo nuovo ruolo il cammino iniziato in questo Paese immenso, dalle grandi contraddizioni, con molte differenze da uno Stato all’altro, segnato, nei mesi scorsi, dalle forti tensioni dopo l’elezione del presidente Lula e l’assalto alle istituzioni dei sostenitori del presidente Bolsonaro. La società è spaccata a metà e la Chiesa è chiamata a essere presente in questo contesto.
Padre Andreolli, che significato ha questa nomina?
«Ha risvegliato la speranza in tante persone. È una nomina che rallegra il cuore di quanti si sentono missionari. C’è necessità, qui in Brasile, di una presenza vicina alla gente, non per risolvere i problemi, ma per stare semplicemente in mezzo alle persone. Credo che, coerente con tante altre scelte di Papa Francesco, la mia nomina sia segno di una Chiesa che ha una sensibilità missionaria e che cerca di essere presente a Belém, come in tutto il Brasile. Una Chiesa non autoritaria e burocratica, ma sempre più vicina alle persone».
Come si vive a Belém?
«È una città che sta crescendo molto velocemente. Dal punto di vista urbanistico, cresce in verticale. Lo spazio diminuisce, così si costruisce in altezza. Ci sono molti “condomini”, edifici chiusi che spesso hanno un proprio “vigilante” all’interno. La scommessa della Chiesa è stare anche in queste realtà, tipiche delle grandi metropoli. Il parroco entra in queste situazioni e ci resta. La Chiesa deve trovare nuove modalità di azione. Non basta, per un prete, suonare le campane per avere i fedeli a Messa. Il sacerdote deve andare a cercare le persone. Gli abitanti di Belém hanno una vita simile a quella degli abitanti di tutte le grandi città. Escono di casa la mattina presto per andare a lavorare e tornano la sera tardi».
Qual è la situazione della Chiesa a Belém e nel resto del Brasile?
«Qui sono molto sviluppate le comunità di base, o meglio le comunità ecclesiali missionarie. Non si tratta di vere e proprie parrocchie. Le persone si riuniscono per la Messa o per la liturgia della Parola, nelle case o nelle piccole chiese o in chiese in via di costruzione. Le comunità, quando si mettono insieme, diventano aree missionarie, con un diacono o un sacerdote. Solo dopo si trasformano in parrocchie. Belém sta crescendo velocemente anche da questo punto di vista. Dieci anni fa le parrocchie dell’arcidiocesi erano 90, ora sono 108. Le persone sono molto devote. La sfida della Chiesa è quella di stare al passo con questa crescita».
Come si stanno muovendo le comunità religiose?
«Molte stanno facendo un ottimo lavoro nel sociale. Stanno nascendo nuove comunità legate al rinnovamento carismatico, con laici molto impegnati. Vengono definite “comunità di vita e di alleanza”, svolgono attività sociali ma sono anche molto legate all’adorazione eucaristica. Fanno un buon lavoro. Diciamo che in Brasile c’è una grande varietà di carismi: lo Spirito Santo soffia forte e c’è spazio per tutti».
Nel resto del Pará, fuori dalle grandi città, com’è la situazione?
«Io sono stato per nove anni nel Sud del Pará, a Tucumá, una realtà agricola con 60 mila abitanti e dieci o quindici comunità che costituiscono la parrocchia. Per raggiungerle bisogna percorrere anche 100 chilometri. Le persone lavorano nei campi: in quelle più lontane la Messa viene celebrata solo 4 volte all’anno. Qui si stanno sviluppando sempre di più le grandi industrie, che se da una parte danno lavoro dall’altra distruggono l’ambiente, in una terra ricca di minerali».
Come vescovo ausiliare ora quale sarà il suo incarico?
«A me è stato chiesto di accompagnare il settore sociale e la Caritas. Dovrò cercare di fare dialogare chi lavora in questo settore, creare rete nel sociale, a livello diocesano. In queste settimane parteciperò alla Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) a San Paolo. Ci divideremo alcuni incarichi, ma in Brasile c’è davvero spazio per tutti, per qualsiasi idea».
Che rapporto ha con le altre congregazioni missionarie presenti in Brasile?
«Un ottimo rapporto: cerchiamo di fare rete e ci vediamo spesso. Conosco anche i missionari del Pime, ci incontriamo qui a Belém. Ci sono davvero tante congregazioni e religiosi italiani o di origine italiana».
E con i giovani?
«In Brasile sono tantissimi: bambini, adolescenti, giovani. Lavorare con loro è una grande opportunità. C’è anche delinquenza, certo, perché i ragazzi purtroppo non hanno molte opportunità. Ma i giovani sono davvero la nostra speranza e per questo motivo occorre molta attenzione nei loro confronti. Qui c’è tanto futuro. La Chiesa deve essere vicina alla gente, in particolare ai giovani, cercando di affrontare i problemi. Lo stile sinodale in Brasile produce già da tempo ogni tre anni un piano pastorale comune, indicando le linee guida a cui ogni parrocchia può fare riferimento ogni volta che si presenta una questione, un problema da risolvere. Il piano attuale ha come motto “missione, evangelizzazione, cura”. Queste sono le nostre bussole, che ci devono aiutare ad agire, soprattutto nei momenti di difficoltà».